Missionario del Pime: “Il processo ai khmer rossi non risolverà i problemi del Paese”
Phnom Penh (AsiaNews) – “Il Tribunale internazionale è un business che porta nel Paese una enorme quantità di capitali e un tentativo di ripulirsi la coscienza”, ma i cambogiani sembrano “più preoccupati di accumulare soldi e puntare su uno stile di vita basato sulla modernità” piuttosto che elaborare una profonda revisione storica “degli eventi del passato”. È quanto afferma ad AsiaNews padre Alberto Caccaro, missionario del Pontificio istituto missioni estere da nove anni in Cambogia.
Domani inizia il primo processo a carico di un esponente dei khmer rossi. Alla sbarra Kaing Guek Eay, meglio conosciuto come il compagno “Duch”, che dovrà rispondere di “crimini di guerra” e di “crimini contro l’umanità”. Sul suo capo pende l’accusa di aver diretto la prigione S-21 nel quadriennio 1975-79, all’interno della quale sono stati commessi ogni tipo di crimine: torture, stupri e più di cento omicidi al giorno. Secondo il missionario del Pime “prevale la retorica a dispetto del senso di giustizia” e manca la “volontà politica” di un serio processo di revisione storica. Anche i ragazzi che il missionario accompagna alla S-21, eccettuato il “piacere” della vista, non sembrano voler approfondire i drammi che si sono consumati al suo interno: “Prevale la retorica, a dispetto del senso di giustizia” e in loro “permane il senso di sfiducia” in istituzioni e apparati governativi che percepiscono come “corrotti”.
“La mentalità khmer – afferma p. Caccaro – tende a non rispolverare antichi rancori e preferisce dimenticare”. Egli riferisce di una “diffidenza fra i khmer” e una “cronica mancanza di fiducia reciproca”. Riportare alla ribalta gli orrori del passato e ribadire la condizione di “vittime” è spesso una “soluzione di comodo perché funge da capro espiatorio per i problemi attuali: corruzione, scetticismo verso le autorità e gli organi preposti ad amministrare la giustizia, perché vince sempre chi ha più denaro”.
Il missionario del Pime conferma la mancanza “di una volontà politica” nel far piena luce sui massacri dei khmer rossi: “La propaganda ufficiale – riferisce – affranca gli attuali governanti da qualsiasi accusa” e alla fine pagheranno solo “i cinque imputati attuali: Kaing Guek Eay, Khieu Samphan, Ieng Sary, Ieng Thirith e Nuon Chea. Di positivo resta l’aggiornamento degli archivi in seguito alle varie istruttorie e l’aver provato a fare i conti con quel periodo buio della storia cambogiana”.
La Chiesa cattolica ha avviato molti progetti nel settore dell’istruzione e dell’educazione, ma vanno “potenziati” per far nascere una coscienza nazionale e innalzare “gli standard di istruzione e scolarizzazione del Paese”. Se la “fede in Cristo è motivo di profonda riconciliazione”, anche la Chiesa deve abbandonare un approccio “assistenziale” e privilegiare il “dibattito culturale” sugli anni del regime di Pol Pot e sul momento attuale attraversato dal Paese.