Marinai nordcoreani sfruttati su pescherecci cinesi: 10 anni senza mettere piede a terra
Un rapporto della Environmental Justice Foundation denuncia le condizioni estreme a cui sono sottoposti marittimi nordcoreani costretti a lavorare su navi battenti bandiera di Pechino. L'indagine è stata realizzata tramite interviste con lavoratori di altre nazionalità, soprattutto indonesiani e filippini. Le imbarcazioni coinvolte sono accusate anche di pesca illegale.
Seoul (AsiaNews) – Decine di lavoratori nordcoreani sono stati costretti a lavorare su navi battenti bandiera cinese, subendo abusi fisici per anni e, in alcuni casi, non toccando terra per oltre un decennio. A rivelarlo è un rapporto pubblicato oggi dalla Environmental Justice Foundation (EJF), un'organizzazione ambientalista con sede a Londra, che ha monitorato l’attività dei pescherecci cinesi nell’Oceano Indiano sudoccidentale tra il 2019 e il 2024.
Il documento evidenzia come le navi cinesi siano coinvolte in pratiche di pesca illegale, e come la presenza di lavoratori nordcoreani a bordo rappresenti una violazione delle sanzioni delle Nazioni Unite imposte a Pyongyang nel 2017. Sebbene sia noto che Cina e Russia impieghino da tempo manodopera nordcoreana, questa è la prima volta che la presenza di questi lavoratori viene documentata su pescherecci attivi in alto mare.
Il rapporto, basato su testimonianze di marittimi di altre nazionalità, in particolare filippini e indonesiani, descrive una condizione di sfruttamento estremo. “Le esperienze dell'equipaggio nordcoreano, e in particolare il numero di anni che presumibilmente hanno trascorso in mare, costituiscono lavoro forzato di una portata che supera di gran lunga quella cui si assiste in un’industria ittica mondiale già piena di abusi”, scrive la Environmental Justice Foundation.
I lavoratori nordcoreani, secondo il documento, subiscono severe restrizioni, come il divieto di lasciare le navi anche quando attraccano nei porti e il divieto di possedere telefoni cellulari per contattare la famiglia. Condizioni che rientrano nella definizione di lavoro forzato dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Inoltre, i capitani delle 12 navi coinvolte hanno attivamente nascosto la presenza dei nordcoreani, trasferendoli da un’imbarcazione all’altra per impedirne lo sbarco.
“A sei coreani non è stato permesso di tornare a casa nemmeno dopo aver completato il loro contratto di quattro anni. Sono stati semplicemente trasferiti da una nave all'altra”, ha dichiarato un marittimo indonesiano. Un'altra fonte ha raccontato che alcuni lavoratori erano rimasti sulla stessa nave per “sette o otto anni”, spiegando che “il loro governo non gli ha concesso il permesso di tornare a casa”.
Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il regime nordcoreano trattiene fino al 90% dei salari dei suoi lavoratori all’estero, stimati tra i 20 e i 100mila solo in Cina. Questo sistema consente al regime di Pyongyang di ottenere valuta estera nonostante le sanzioni, finanziando in parte il programma nucleare e missilistico.
Oltre allo sfruttamento della manodopera, il rapporto di EJF denuncia anche gravi violazioni ambientali da parte dei pescherecci cinesi. Le imbarcazioni avrebbero praticato lo spinnamento degli squali – una tecnica vietata in molti Paesi – e la pesca di specie protette come i delfini. I prodotti derivati da queste attività sarebbero poi finiti sui mercati ittici di diversi Paesi in Asia e in Europa.
Le difficoltà di regolamentazione e il mancato controllo nei porti hanno permesso a queste pratiche di continuare indisturbate, secondo gli esperti dell'organizzazione ambientale. “L'uso di manodopera nordcoreana a bordo di pescherecci cinesi è un'accusa schiacciante dell'incapacità di regolamentare i nostri oceani. La pesca illegale e le violazioni dei diritti umani si trovano quasi senza eccezioni a bordo dei pescherecci cinesi in mare aperto. Tuttavia, l'utilizzo di manodopera forzata nordcoreana per periodi così lunghi è un esempio particolarmente grave di grave cattiva condotta scoperta da EJF”, ha dichiarato Steve Trent, presidente e fondatore di EJF.
“Gli effetti di questa situazione si fanno sentire in lungo e in largo e il pesce pescato con questo lavoro illegale raggiunge i mercati ittici di tutto il mondo. La Cina ha la responsabilità maggiore, ma quando i prodotti contaminati dalla schiavitù moderna si trovano nei nostri piatti, è chiaro che la responsabilità collettiva deve essere assunta anche dagli Stati di bandiera e dagli organismi di regolamentazione. Non adottare le misure necessarie, a basso o nullo costo, per porre fine a questo fenomeno, significa chiudere un occhio su una sofferenza estrema ed evitabile”, ha concluso Trent.
20/11/2020 13:35