Madre di Ghouta: Per mio figlio meglio l’esercito che il giogo jihadista
Dai rifugiati dell’ex enclave estremista alle porte di Damasco giungono storie di dolore, ma al tempo stesso di solidarietà. Una donna racconta il periodo sotto i gruppi fondamentalisti, senza cibo né speranze per il futuro. Oggi si prende cura della famiglia e di un nipote disabile, rimasto orfano. I timori in vista dell’inverno e il desiderio di tornare alla propria casa, al proprio villaggio.
Damasco (AsiaNews) - Storie di dolore, ma allo stesso tempo di speranza e solidarietà. Una madre che accoglie come una grazia la chiamata del figlio maggiore nell’esercito, che considera una condizione migliore rispetto al tempo in cui la famiglia era costretta a vivere sotto il dominio dei gruppi estremisti e jihadisti. È quanto emerge dai racconti dei rifugiati della della Ghouta orientale, area alla periferia di Damasco per lungo tempo controllata dai ribelli in lotta contro il presidente Bashar al-Assad.
La responsabile comunicazione di Caritas Siria Sandra Awad li ha incontrati e nei ha raccolto le testimonianze e le confessioni, nel contesto di un progetto lanciato dall’ente caritativo cristiano a sostegno degli sfollati, in larghissima maggioranza famiglie musulmane. Nelle scorse settimane gli attivisti hanno distribuito migliaia di aiuti, sotto forma di generi di prima necessità e generi alimentari.
Ecco, di seguito, la testimonianza della responsabile Caritas. Per la prima e la seconda parte del reportage clicca clicca qui e qui. Traduzione a cura di AsiaNews:
“Ringrazio Dio che mio figlio si sia unito all’esercito. Sebbene oggi si trovi nel bel mezzo di una guerra, questa situazione è di gran lunga migliore del periodo buio che abbiamo vissuto durante l’assedio di Ghouta. Paura, fame, miseria. Mi creda, la sua condizione ora è di molto migliorata. Prego giorno e notte che Dio lo protegga e presto anche il mio secondo figlio si unirà all’esercito, come suo fratello…”. Dopo queste parole, Lina ha iniziato a piangere manifestando tutta la sua profonda pena; io le lo poggiato una mano sulla spalla e ho cercato di calmarla, poi le ho chiesto: “Dove presta servizio il tuo figlio più grane?”.
In seguito alla mia domanda, le sue lacrime sono aumentate mentre mi diceva: “Idlib”.
All’improvviso è calato il silenzio nella stanza, un silenzio surreale che mi è penetrato nel profondo; poi, una voce flebile è uscita a fatica dal profondo e le ho risposto: “Possa Dio proteggerlo”.
La donna, di fede musulmana, si è sollevata e mi ha detto come per convincersi: “Mi creda, signora, la sua situazione è di molto migliore. Negli anni passati, pativamo la fame. I giorni in cui andavamo a letto digiuni erano di molto superiori a quelli in cui mangiavamo qualcosa. I miei figli e quelli dei miei vicini si aggiravano per la discarica, in cerca di qualcosa di commestibile da mangiare. Il raro pane d’orzo che potevamo cuocere era esso stesso una tortura. Ringrazio Dio, perché ora ci sentiamo benedetti”.
Mi sono guardata attorno per vedere le “benedizioni” di cui parlava Lina. Una casa senza porte o finestre, tende a brandelli con le quali gioca il vento, pochi materassi sparsi per il pavimento, marito e figli con indosso vestiti vecchi e logori. I piedi avvolti in ciabatte di plastica stracciate, i loro volti e le mani ricoperte di polvere.
Lina ha proseguito il suo racconto: “Ora, almeno, i miei bambini possono indossare qualcosa ai piedi e hanno vestiti bellissimi. Ma ciò che conta è che mangiamo del pane vero. Ringrazio Dio migliaia di volte per il pane che ci dona, oggi i miei figli conoscono il sapore delle patatine, mele, biscotti e il valore del denaro. Si immagini che mia figlia di sette anni ha conservato per molti anni una moneta di cinque lire siriane, sognando che un giorno avrebbe potuto comprare un dolce alla fine della guerra. Quando è rimasta delusa, dopo aver saputo che quel denaro non vale più nulla e anche il più piccolo pezzo di biscotto costa dieci volte di più di quel pezzo di carta che possiede”.
La bambina si è avvicinata e mi ha consegnato la banconota. Le ho chiesto: “Come ti chiami, bellissima?”. Le ha risposto: “Assinat”. “Un nome bellissimo, ma strano” ho replicato. “Cosa significa?”. “Vuol dire chiaro di luna” afferma Lina. “Che bello. Ma quanti figli hai’” chiedo poco dopo a Lina. “Cinque: tre maschi e due femmine. E mi prendo cura anche di Abdulrahman, nipote di mio marito, i cui genitori sono stati uccisi durante la guerra. È paralizzato, non può camminare e muove a malapena le braccia. Durante l’assedio [a Ghouta] mettevo da parte un po’ di pane per lui da mangiare, perché era il più debole dei miei figli”.
“Lo consideri come un tuo figlio?” le chiedo. “Certo” risponde con gli occhi colmi di amore, mentre lo osserva con in mano una matita, intendo a scrivere il proprio nome su un foglio con le sue dita deboli e tremanti. “I suoi genitori erano fra le persone più care, non fa differenza. Ma temo per l’inverno e dovremo vivere in questo appartamento fino al ritorno al nostro villaggio”.
Non vi sono finestre per proteggersi dal freddo dell’inverno, ma vi è spazio sufficiente per muoversi nel tentativo di scaldarsi. Il problema, avverte Lina, è per Abdulrahman “che sta sempre seduto e potrebbe avvertire il freddo molto più di noi”.
Un dolore intenso mi ha attraversato il cuore, per un inverno che si avvicina rapido e la tragedia di questa famiglia destinata a ricominciare come ogni anno. Ma Lina sembrava più ottimista di me: “Grazie a Dio ora ho da mangiare e da bere, per gli aiuti umanitari che riceviamo. Tuttavia, io e mio marito vogliamo tornare nella nostra casa, al nostro villaggio di Al-Abbadeh dove possediamo un piccolo appezzamento di terra pieno di olivi. Mio marito se ne prenderà cura di nuovo, così potremo vivere con dignità come un tempo… contadini che piantano e raccolgono i frutti della loro fatica”.
Ad un certo punto si sente una donna piangere all’esterno e Lina mi invita a uscire perché si trattava della vicina Um Hussain. Mi spiega: “Ho invitato Um Hussain a vivere nel nostro villaggio, per aiutarla a crescere i bambini di sua figlia, uccisa insieme al marito durante la guerra. Deve portare un peso enorme. Al villaggio possiamo prenderci cura gli uni degli altri”.
“È una tua parente?” le chiedo. “No”, risponde con semplicità “la conosco da pochi mesi”. “Un giorno - racconta la donna - Lina mi si è avvicinata e mi ha invitato a vivere con lei e la sua famiglia. Siamo rimasti con loro per alcuni giorni, poi ci siamo sistemati in un appartamento dello stesso blocco, dopo averlo ripulito. Siamo diventate vicine di casa e ora vuole portarmi con sé”.
Chiedo a Lina: “Ma la tua casa al villaggio è in grado di accogliervi tutti?”. Pronta la replica: “No, non lo è”. L’abitazione è stata saccheggiata, ma “puliremo tutto e metteremo le tende come abbiamo fatto qui, I miei due figli saranno nell’esercito e per me e mio marito sarà meglio tornare al villaggio e alla casa si Abbadeh. Prego Dio che protegga i miei figli, ma oggi posso dire che stanno meglio che in passato [a Ghouta sotto il controllo dei gruppi estremisti e jihadisti]”.
Ho lasciato la casa “in affitto” come la chiama Lina e le migliaia di altre famiglie che qui si sono rifugiate dalla Ghouta a causa delle violenze e delle crudeltà della guerra, con una sensazione diffusa si amore, apprezzamento, orgoglio.
“La guerra - rifletto - ha privato quella donna di tutto, ma non le ha portato via lo spirito battagliero e ottimista”. Beati quelli a cui la guerra non è riuscita a far breccia nei loro cuori e hanno saputo rimanere aperti all’amore, al perdono fino al limite estremo, perché è grazie a loro che la nostra amata Siria è ancora viva”.
* Responsabile della Comunicazione Caritas Siria