L’emergenza coronavirus rafforza i legami fra nazioni del Golfo e Pechino
Sintonia fra la natura autoritaria del regime cinese e quella delle monarchie dell’area. Riyadh elogia la gestione cinese della Pandemia e dimentica i silenzi colpevoli di Pechino. La politica aggressiva dei Saud sul mercato del petrolio in chiave anti-russa. L’Egitto ha inviato materiale medico e ha issato la bandiera cinese sui monumenti.
Riyadh (AsiaNews/Agenzie) - L’emergenza scatenata dalla pandemia di nuovo coronavirus ha determinato un rafforzamento nelle relazioni fra Medio oriente e Cina, che prosegue nel progetto di soppiantare gli Stati Uniti (e la Russia) come potenza egemone nella regione. Analisti ed esperti sottolineano che il percorso di riavvicinamento, già presente negli anni scorsi, è favorito dalla natura autoritaria che accomuna il regime cinese e le monarchie della penisola araba.
Riyadh ha più volte elogiato in questi mesi la gestione della crisi Covid-19 da parte della Cina, tacendo il ruolo di Pechino nella diffusione dell’epidemia. Nel momento di maggiore criticità, i sauditi hanno inviato materiale medico e siglato un contratto di 256 milioni di dollari fra le due nazioni per la fornitura di test e tamponi e l’invio di medici.
La conferma arriva anche dai toni utilizzati dai media sauditi, fra cui al-Arabiya che si è spinta ad affermare che “la Cina è il solo Paese che ha saputo ben gestire questa crisi”. Una diplomazia del denaro e delle parole, che ha permesso a Pechino di sviluppare la politica del “soft power” nella regione, rafforzata oggi dalla fornitura di materiale medico e dai proclami di rinnovata vicinanza alle nazioni del Golfo.
All’emergenza coronavirus si somma anche la crisi petrolifera fra Arabia Saudita e Russia di marzo, nel contesto del crollo della domanda da parte della Cina, primo importatore mondiale. Al rifiuto opposto da Mosca di regolare le quote di mercato, Riyadh ha risposto con un ulteriore aumento della produzione che ha determinato un crollo nei prezzi scesi al di sotto dei 20 dollari al barile.
Il regno wahhabita ha adottato una politica aggressiva, con prezzi al ribasso e condizioni di favore in particolare verso i clienti asiatici. La compagnia nazionale Aramco ha fatto grossi investimenti nelle raffinerie cinesi, gettando le basi per una relazione duratura sul piano energetico. A questo si unisce infine il progetto della leadership saudita di diversificare la propria economica nel contesto dei piano Vision 2030, mentre Pechino vuole estendere sempre più la propria influenza in Europa, passando per Africa e Medio oriente nella “nuova via della seta”.
Inoltre, il profilo autoritario dei governi regionali meglio si adatta dell’Europa e rafforzare le relazioni economiche e commerciali in un contesto critico come quello attuale. Negli ultimi tempi Pechino si è ben guardata dal commentare l’omicidio nel consolato saudita a Istanbul del giornalista e attivista Jamal Khashoggi, o l’intervento della coalizione araba a guida saudita nello Yemen. E Riyadh, che si presenta come leader del mondo musulmano, non ha rivolto mezza critica ai cinesi per il trattamento degli uiguri nello Xinjiang da parte della Cina. Sull’argomento, il principe ereditario saudita ha affermato che Pechino “ha il diritto di prendere le misure anti-terrorismo” che ritiene più opportune.
Oltre ai Paesi del Golfo, anche altre nazioni fra cui l’Egitto hanno approfittato della pandemia per trovare nuove vie di commercio con la Cina. Nelle prime fasi della crisi il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha inviato materiale medico, mentre il Cairo ha issato la bandiera cinese su alcuni monumenti simbolo al Cairo e nella valle del Nilo. Questa mobilitazione non si è fermata nemmeno quando la pandemia ha messo in ginocchio Paesi della regione come l’Iran: allorché un funzionario di Teheran ha “osato” criticare Pechino per la gestione della pandemia, egli ha dovuto ritrattare a distanza di poche ore dietro ordine preciso della leadership religiosa e radicale legata agli ayatollah.
16/04/2018 09:00