24/11/2016, 10.07
IRAQ
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L’Offensiva di Mosul aggrava il dramma dei profughi cristiani, dimenticati da governo e Onu

P. Samir Youssef racconta una “emergenza nell’emergenza” che rende ancor più difficile la situazione. Solo la Chiesa aiuta i cristiani che si preparano a vivere “il terzo Natale da profughi”. Dalle aree liberate dal Califfato le storie di donne violentate, bambini indottrinati, case distrutte. E un appello: nessuno chiuda “la porta della misericordia”. 

 

Amadiya (AsiaNews) - Una “emergenza nell’emergenza” che ha reso ancor più difficili le già precarie condizioni dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive, da oltre due anni lontani dalle loro case in seguito alle conquiste dello Stato islamico (SI). L’offensiva lanciata il 17 ottobre scorso dall’esercito e dai Peshmerga curdi ha generato “una nuova ondata di profughi,  almeno 200mila” secondo le ultime stime, le cui sorti hanno relegato in secondo piano sofferenze e bisogni di chi “per il terzo anno” vivrà “il Natale da rifugiato”. È quanto racconta ad AsiaNews p. Samir Youssef, parroco della diocesi di Amadiya (nel Kurdistan irakeno), che cura 3500 famiglie di profughi cristiani, musulmani, yazidi che hanno abbandonato le case e terre per sfuggire ai jihadisti.

P. Samir è in prima linea dall’inizio dell’emergenza ed è fra i beneficiari della campagna lanciata da AsiaNews “Adotta un cristiano di Mosul”, che continua in vista del Natale e dell’inverno ormai alle porte.

I primi profughi di Mosul e della piana di Ninive, racconta, “sono dimenticati a causa della nuova emergenza” innescata dall’offensiva contro il Califfato. I bambini sono costretti a indossare scarpe vecchie e consumate, che spesso non bastano a riparare dal freddo e dalla neve. Le famiglie non possono permettersi nuove coperte, ma continuano a usare quelle usurate degli anni scorsi. Manca il cherosene, scarseggia il cibo e le necessità si fanno sempre più impellenti. 

“Nella nostra zona - racconta il sacerdote - l’80% degli aiuti è a carico della Chiesa. Il governo fa poco o nulla, le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie si occupano solo delle persone ospitate nei campi profughi”. A Enishke [villaggio di montagna fra Zakho e Dohuk] vi sono almeno 400 famiglie bisognose “ma qui Onu e governo non fanno nulla” ed è “solo grazie alla Caritas e alla Chiesa che sono arrivati gli aiuti”. 

Generi di prima necessità, risorse, scorte “vanno distribuiti a tutti”, aggiunge p. Samir, che non vuole distinzioni “fra cristiani, yazidi e musulmani quando si tratta di caritativa. Io voglio che sia dato a ciascuno, senza distinzioni”. Fra le priorità cui la Chiesa ha voluto rispondere anche quest’anno, spiega il sacerdote, la raccolta “del denaro necessario per mandare a scuola 800 bambini. La maggior parte di loro frequenta un istituto a 30 minuti di distanza dal villaggio”. 

Lo scorso anno, ricorda p. Samir, “abbiamo distribuito molti aiuti, grazie alle molte donazioni ricevute”. Invece quest’anno “le risorse sono state di gran lunga inferiori - sottolinea - e non bastano per rispondere a tutti i fabbisogni. Viviamo un'emergenza nell’emergenza, serve di tutto dal cibo al gasolio, dai vestiti al denaro per l’acquisto di prodotti per l’igiene personale”. 

Fra i profughi di Mosul e della piana di Ninive permane “la preoccupazione per il futuro, in attesa che vengano liberate tutte le zone” ancora sotto il controllo dello Stato islamico. “Cristiani e yazidi sono affranti - sottolinea il sacerdote - nel vedere le immagini che arrivano dalle loro aree, oggi liberate, e che raccontano di case devastate [quasi l’80% del totale], oggetti rubati, vestiti rubati”. 

Una “distruzione sistematica” perpetrata dai miliziani di Daesh con il solo scopo di “impedire il rientro dei rifugiati nelle proprie abitazioni”, unita al massacro di intere famiglie e alla riduzione in schiavitù delle donne, soprattutto fra le yazide, vere e proprie prigioniere del sesso per i jihadisti. 

Oggi le truppe irakene non devono combattere solo lo SI, ma devono anche sfamare una popolazione allo stremo dopo oltre due anni trascorsi sotto il dominio del “Califfato”. “Giungono notizie - prosegue p. Samir - di kamikaze che si mescolano alle vittime; e ancora, della presenza in ogni villaggio di una casa in cui donne yazide erano rinchiuse, abusate e vendute come schiave sessuali dei combattenti”. 

A questo si unisce il dramma delle donne incinte: si tratta perlopiù di appartenenti alla minoranza yazidi vittime di violenze sessuali. “Molte di loro - racconta il sacerdote - chiedono di abortire. In ogni caso si pone per il futuro il problema di una generazione di figli che non sapranno nemmeno chi è il loro padre, abbandonati al loro destino”. Sono anche queste le conseguenze della guerra e costituiscono ulteriore fonte di scontro e tensione in un contesto già di forte rischio. 

Dai villaggi liberati emergono altri dettagli, forse meno cruenti ma dal forte carico simbolico: “Arrivano immagini di case - sottolinea p. Samir - con i muri ricoperti di scritte, molte delle quali affermano: ‘Voi amate la vita, noi vogliamo la morte’. Sono i messaggi dei jihadisti poco prima di ritirarsi, e che oggi si sono riversati in massa nella zona ovest di Mosul, sulla riva destra del fiume Tigri. Il pericolo è che la città si divida in due e, come Aleppo in Siria, sia teatro di un conflitto che si trascinerà per i prossimi anni”. 

Infine, il parroco racconta dei molti bambini di Mosul e dei territori occupati dallo SI che “hanno subito il lavaggio del cervello, cresciuti con l’ideologia della morte, della guerra, della violenza”. Minori cui i jihadisti “hanno insegnato a usare le armi e che invece di prendere in mano un libro hanno imparato a maneggiare le pistole”. Servono, avverte, dei programmi di recupero per strappare questi bambini “all’indottrinamento subito” e una “rieducazione generale della popolazione”.

Un esempio arriva proprio dal villaggio di Enishke: una famiglia musulmana è finita nel mirino degli yazidi perché si è scoperto che il capo-famiglia ha un fratello a Mosul che era un esponente di primo piano dello SI. “Le persone ora vogliono cacciarli - racconta p. Samir - ed è alto il pericolo di vendette e di ritorsioni, secondo una logica ben radicata nell’islam e che lava il sangue con il sangue”. Sarà difficile, avverte, modificare questa mentalità e far prevalere la carità, il perdono. 

A poche settimane dal Natale e a conclusione dell’Anno giubilare, secondo p. Samir solo la misericordia potrà salvare un Iraq martoriato da violenze e divisioni. “Stiamo iniziando i preparativi per le feste - racconta p. Samir - con incontri di preghiera, celebrazioni, seminari. Ai cristiani di Oriente e Occidente, ma soprattutto a quanti stanno in Europa e negli Stati Uniti, dico di non dimenticarvi di noi. Come ha detto papa Francesco, la misericordia non deve finire ma deve continuare a vivere nel nostro amore verso l’altro. Nessuno - conclude - può chiudere la propria porta della misericordia”.(DS)

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