Libano, la crisi finanziaria affossa i migranti: stipendi dimezzati, voglia di fuggire
Le difficoltà del sistema bancario e la mancanza di dollari spingono all’uso della moneta locale. Svalutazione dei salari e calo radicale degli introiti. Ad aggravare la condizioni dei lavoratori il sistema “kafala”, forma di “moderna schiavitù”. In molti premono per tornare nel Paese di origine.
Beirut (AsiaNews) - “Non ci sono più dollari e tutto è diventato più caro. Non è più come prima, la vita è difficile”. Le parole della 32enne Jasmin Bighoun, lavoratrice domestica originaria del Bangladesh, confermano una volta di più le difficoltà che vivono oggi i migranti economici in Libano, travolti dalla crisi economica e politica che da mesi ha colpito il Paese dei cedri. Un tempo, confessa la donna all’Afp, riusciva a inviare alla famiglia in patria sino a 300 dollari; oggi ne può mandare meno di 150. “La mia ‘signora’ - aggiunge - dice che non ha più dollari […] Non ci posso fare nulla” e se necessario tornerà a casa col marito.
Indebolito da un debito crescente, il Libano sta vivendo la peggiore crisi finanziaria dai tempi della guerra civile degli anni ’90, sollevando le proteste della popolazione e ripetuti appelli della Chiesa maronita. Molte fra le centinaia di migliaia di lavoratori migranti sono senza salario o hanno visto le loro paghe ridimensionarsi. “Un tempo guadagnavo 400 dollari […], ma oggi ricevo il salario in lire libanesi” racconta la 18enne domestica Mary, e “non riesco più a mandare soldi in Etiopia”.
Attivisti libanesi e ong internazionali pro diritti umani hanno lanciato a più riprese appelli per la cancellazione del sistema “kafala”, che favorirebbe - come in molte altre nazioni del Medio oriente - quella che viene definita “moderna schiavitù”. In Libano come altrove, questo modello di “sponsorizzazione” intrappola i lavoratori stranieri, vincolandoli al proprio datore di lavoro e privandoli di ogni diritto fondamentale.
In Libano - dal 17 ottobre scorso scosso da imponenti manifestazioni di piazza contro corruzione e malgoverno -vi sono circa 250mila migranti economici, la maggior parte provenienti da Etiopia, Sudan, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka e Filippine e impiegati come collaboratori domestici. Alcuni di loro risultano essere minorenni e vivono in condizioni oggetto di critiche e condanne in passato da parte dei gruppi attivisti e dei governi dei Paesi di origine. Essi risultano fra le categorie più colpite dal crollo della moneta locale, dalle restrizioni nei depositi e nelle transazioni bancarie, per la mancanza del dollaro da tempo moneta di riferimento per locali e stranieri.
Oggi i lavoratori ricevono gli stipendi - almeno quelli che vengono pagati - in lire libanesi, con una netta diminuzione del potere di acquisto. Per gli immigrati la situazione si complica ancor più, perché per poter inviare denaro alla famiglia devono convertire la somma in dollari, perdendo fino al 30% del valore.
La mancanza di liquidità ha ridotto in modo drastico l’accesso alla moneta verde e innescato una crisi durissima per decine di migliaia di lavoratori migranti. La svalutazione ha ridotto anche di un terzo i salari, come conferma Mary che però vuole “scagionare” il proprio datore di lavoro: “Non sono loro i colpevoli, il problema è lo Stato”.
Prima della crisi, la maggior parte di questi lavoratori stranieri guadagnava fra i 150 e i 400 dollari al mese. Ora, parte di questa lavoro sta pensando di tornare a casa affollando ambasciate e sedi consolari. A fine dicembre almeno mille filippini si sono radunati nella rappresentanza diplomatica in Libano mettendosi in lista per un biglietto di ritorno gratuito. Di questi, la maggioranza erano lavoratrici domestiche con in braccio i loro bambini. “Il tempo è prezioso” racconta la 38enne Divine, nel Paese dei cedri da 15 anni e da quattro mesi senza salario. “Con tutti i sacrifici che ho fatto e la pazienza che ho avuto - conclude - mi merito il mio denaro”.