Libano, domestica filippina si suicida. Il dramma dei lavoratori migranti
Crisi economica e pandemia hanno acuito le difficoltà dei lavoratori migranti nel Paese dei cedri. Oltre 250mila persone provenienti soprattutto da Filippine, Bangladesh ed Etiopia. Nel centro di accoglienza all’interno dell’ambasciata filippina ignorate le condizioni di sicurezza e il rispetto dei diritti. Attivista etiope: “Siamo invisibili”.
Beirut (AsiaNews/Agenzie) - Il suicidio di una migrante filippina in un centro di accoglienza, allestito nell’ambasciata del Paese asiatico a Beirut, ha gettato nuove ombre sulla condizione degli immigrati in Libano, colpiti da una crisi economia acuita dall’emergenza Covid-19. La vittima è deceduta il 24 maggio scorso, dopo essersi buttata il giorno precedente dalla finestra della camera che divideva con altre lavoratrici. In una nota la rappresentanza diplomatica annuncia l’apertura di una indagine interna per verificare “la sicurezza” delle ospiti e “fornire assistenza ove necessario”.
Secondo le prime informazioni, la donna sarebbe entrata nella struttura di accoglienza il 22 maggio, dove secondo l’ambasciata filippina vi sarebbero al momento 26 persone che ricevono a titolo gratuito vitto, alloggio e l’assistenza necessaria per espletare le operazioni di rimpatrio. Tuttavia, il ministero libanese degli Esteri avrebbe riscontrato delle irregolarità, chiedendo alla rappresentanza diplomatica di prendere misure adeguate per “il rispetto dei requisiti minimi per l’esercizio fisico quotidiano all’aria aperta” e di garantire “sostegno psicologico adeguate per le donne il personale”.
Dopo aver visitato la struttura, gli uomini del ministero denunciano un dato relativo all’accoglienza di molto superiore alle effettive capacità e l’impossibilità di far rispettare le norme di distanziamento sociale imposte dalla pandemia di nuovo coronavirus. In Libano vi sono circa 250mila lavoratori immigrati, provenienti in larga parte da Etiopia, Filippine e Sri Lanka e cooptati secondo il sistema “Kafala” che li priverebbe di molti dei diritti che vanno garantiti ai lavoratori.
A questo si aggiunge la profonda crisi economica, politica e istituzionale attraversata dal Paese dei cedri, aggravata dalla guerra in Siria e acuita con il nuovo coronavirus.
Già prima della pandemia, la condizione dei lavoratori migranti era drammatica come denunciavano associazioni e gruppi pro diritti umani, in una escalation di sfruttamento, bassi stipendi, lunghe ore di lavoro, zero permessi e nessuna protezione. Il Covid-19 ha aumentato i problemi, stralciando i salari e affossando il potere di acquisto; quei pochi che ricevono lo stipendio, se lo vedono pagato in lira locale, iper-svalutata, rispetto ai dollari del passato e altri ancora hanno perso il lavoro e si sono riversati alle ambasciate e consolati in cerca di aiuto.
“Siamo invisibili” racconta Banchi Yimer, lavoratrice domestica etiope che ha fondato un gruppo di sostegno per i diritti dei lavoratori immigranti in Libano. “Non esistiamo nemmeno per i nostri governi, non solo per quello libanese”. In soli tre giorni almeno 20 migranti etiopi sono stati abbandonati dai loro datori dei lavoro in mezzo a una strada o nei pressi delle rappresentanze diplomatiche. In questo contesto sono aumentati i tentativi di suicidio o le morti sospette, come avvenuto per la domestica filippina nel fine settimana.
Alcune datori di lavoro finiscono per abusare in modo fisico o psicologico dei propri domestici e non vi è nessuna legge a proteggerli. Per questo le proteste si fanno sempre più frequenti: la scorsa settimana alcuni etiopi hanno promosso una manifestazione simbolica all’esterno della loro ambasciata, chiedendo il rimpatrio a titolo gratuito. Sempre in quei giorni le forze di sicurezza libanesi sono intervenute con la forza per disperdere una protesta lanciata da infermieri e operatori sanitari del Bangladesh, che chiedevano l’adeguamento dei salari al netto dell’inflazione crescente.
26/10/2017 08:55