Leader islamici e cristiani: Luci e ombre nei colloqui di pace fra governo e talebani
Islamabad (AsiaNews) - Il tentativo di dialogo del governo con i gruppi talebani, finalizzato al raggiungimento di un cessate-il-fuoco definivo per portare la pace nel Paese, continua ad alimentare polemiche e controversie in seno alla società civile e fra i leader religiosi di tutte le confessioni. Una parte consistente è favorevole al tentativo e preme perché venga sottoscritto un accordo che metta a tacere le armi e segni la fine di attacchi mirati e attentati sanguinosi; dall'inizio dell'anno si sono registrati già 24 episodi di violenze di matrice islamista, con centinai di morti e feriti. Di contro, vi è una fetta numerosa che preme per l'operazione militare e punta il dito contro il sistema giudiziario, incapace di punire i colpevoli.
Peraltro, il primo giorno di colloqui fra le due delegazioni - in programma ieri a Islamabad - è stato caratterizzato da grande confusione e si è concluso con un nulla di fatto. Gli emissari del governo non si sono presentati, perché nutrivano dubbi sulla effettiva "rappresentatività" della controparte talebana, composta da tre dei cinque membri previsti in origine; gli islamisti accusano l'esecutivo di mancanza di serietà e di pressioni da parte di Washington, che non vedrebbe di buon occhio le trattative. Fonti governative annunciano un nuovo faccia a faccia per domani, ma non vi sono conferme ufficiali.
I leader talebani del Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) avrebbero posto due condizioni per trattare la pace con Islamabad: l'imposizione della sharia, la legge islamica, in tutto il Paese; la seconda, ancora più radicale, la liberazione di tutti gli estremisti e combattenti rinchiusi in carcere, considerati alla stregua di "terroristi" secondo i dettami costituzionali. Fra loro vi è anche Mumtaz Qadri, l'assassino del governatore del Punjab Salman Taseer, morto nel gennaio 2011 per l'opposizione alle leggi sulla blasfemia.
Interpellato da AsiaNews, l'analista ed esperto di politica pakistana Mizra Ghulam Muhammad si chiede se dialogare coi talebani sia "l'unico modo" per relazionarsi con persone che "hanno ucciso innocenti e sgozzato le forze armate". Egli aggiunge che "il governo ha speso un sacco di soldi in carceri, per assicurarsi che questi prigionieri non siano rilasciati". La colpa, aggiunge, è della "debolezza del sistema giudiziario" che non ha saputo "condannare a morte un solo terrorista" e si preferisce parlare con persone che "continuano a uccidere innocenti". Maulana Muhammad Hafiz, musulmano ed esperto di legge islamica, confida nei colloqui che rappresentano la "soluzione migliore" per mettere fine alle violenze. L'intervento militare rischia di causare troppi "danni collaterali" e chiarisce che "tutti i termini della discussione" possono essere analizzati alla luce "della sharia e della Costituzione del Pakistan".
P. Arshed John, sacerdote dell'arcidiocesi di Lahore e attivo nel settore della giustizia sociale, chiarisce che "nessuno è al sicuro, chiese, moschee, scuole, centri religiosi e mercati sono tutti possibili obiettivi di attacchi". Egli rilancia l'iniziativa di preghiera "per la pace" nella regione, perché "abbiamo già visto sin troppo sangue". "Qualunque decisione prenderà il governo del Pakistan - aggiunge - noi lo sosterremo"; la ricerca della pace "non deve essere scambiata come un sintomo di debolezza, il nostro è uno dei migliori eserciti al mondo e sappiamo come difenderci dai pericoli". Da tempo la popolazione civile pakistana chiede interventi decisi per portare pace e sicurezza in una nazione esasperata dalla logica della violenza e del conflitto a sfondo confessionale. In una imponente marcia delle "bandiere bianche" che si è tenuta nei fiori scorsi a Faisalabad, centinaia di persone hanno avanzato una "terza via": dialogare coi miliziani e colpire con forza quanti perseguono la logica della violenza. A fine gennaio la Chiesa cattolica pakistana ha promosso una giornata di preghiera per ricordare tutte le vittime del terrorismo.