Le scelte di Bernanke non aiutano l'economia reale e i Paesi emergenti
Milano (AsiaNews) - Il discorso della settimana scorsa del governatore della Banca centrale USA, Bernanke, al parlamento americano, nonostante la sua notevole importanza istituzionale, è stato di fatto riportato molto sotto tono, se non largamente ignorato, da un po' tutti i mezzi d'informazione, come se fosse ininfluente o privo d'interesse. Se si considera il totale fallimento di Greenspan e del suo successore Bernanke nel formulare corrette previsioni economiche rispetto, ad esempio, al mercato immobiliare americano e quello dei mutui "sub-prime", con la conseguente crisi dei derivati e del fallimento Lehman questo disinteresse è certo comprensibile. In fondo, questa stessa piccola agenzia missionaria, AsiaNews, può modestamente e senza spocchia vantare di aver lanciato nel 2005, 2006, 2007, 2008 una serie di precisi avvertimenti sul collasso cui abbiamo assistito nell'autunno 2008 ben più accurati di quelli contenuti nei "pontificali" di allora dei governatori della Fed. Per qualificare il discorso del 27 febbraio di Bernanke basterebbe inoltre la risibile vanteria di aver saputo negli ultimi 25 anni controllare l'inflazione "non solo negli Stati Uniti, ma in giro nel mondo" [1]: evidentemente il governatore della banca centrale statunitense non è mai andato a far la spesa in un supermercato e nemmeno si è accorto che i prezzi di molte materie prime ed in particolare di quelle agricole sono vicini ai massimi storici. Prigioniero, forse, del suo stesso inganno nel camuffare la reale inflazione mediante diversi artifizi di econometria introdotti nei metodi con cui viene riportato l'incremento dei prezzi, Bernanke non si accorge del perdurare della grave recessione reale da cui l'economia americana, quella occidentale, ma in qualche misura anche quella mondiale, dalla fine del 2008 non si sono mai davvero risollevate. Se tale affermazione di B. è risibile un'altra è invece preoccupante: il suo vantarsi di aver protetto i risparmiatori pompando i mercati finanziari [2]. Il fatto che l'indice di borsa S&P 500 dopo i picchi del marzo 2000 (1500,64) ed ottobre 2007 (1565,15) sia tornato sui massimi storici e si situi attorno a 1520 dovrebbe piuttosto suscitare un forte allarme per le ragioni già espresse da AsiaNews [3]: un probabile crollo del 30 - 50 % delle quotazioni di Borsa, come misura e formula del ritorno al reale.
Ipotizziamo, ora, che l'evidente disconnessione della Fed dalla realtà sia dovuta all'adozione di teorie economiche entrambe errate, quella keynesiana e neo-keynesiana da un alto e monetarista e delle aspettative razionali (la scuola di Chicago). L'ipotesi alternativa comporta l'alto tradimento e qui preferiamo per un attimo tralasciarla. Esaminiamo invece le conseguenze delle politiche della Fed per i Paesi emergenti ed in particolare quelli asiatici: la distorsione finanziaria.
Le strategie della QE
Nei paesi sviluppati la politica monetaria adottata a partire dall'autunno 2008 negli USA, cioè dal fallimento della Lehman, e dal 2011 in Europa a partire dalla crisi greca, è stata quella detta di QE. QE sta per Quantitative Easing, letteralmente "Accomodamento Quantitativo", e significa cioè permettere al sistema bancario una emissione di moneta bancaria maggiore dell'usuale.
Questa politica di QE da parte delle banche centrali dei paesi sviluppati (la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea, la Banca d'Inghilterra, la Banca del Giappone) non è stata adottata per stimolare la crescita economica dei paesi sviluppati ma per altre finalità.
La QE è stata mirata
- - al finanziamento monetario (non reale) dei deficit dei bilanci statali di USA/UK/Giappone/Europa.
- - al perseguimento di particolari obbiettivi di tassi di cambio (leggi svalutazione) per favorire le esportazioni (è il caso del franco svizzero, dello yen giapponese, del tasso di cambio dell'euro rispetto al dollaro)
Gli effetti prevedibili e scontati della QE sono stati:
- - remunerazione negativa dei tassi di deposito
- - introduzione di maggiore regolamentazione nei mercati finanziari e nell'economia.
Una conseguenza (un po' inattesa per gli economisti keynesiani come Krugman e Stiglitz) della QE è che si è dovuto constatare che il meccanismo monetario come strumento di orientamento dell'economia da parte delle banche centrali rischia di essersi rotto. In altri termini mentre nei decenni passati lo strumento di politica monetaria dell'Accomodamento Quantitativo aveva effetti sull'economia reale e serviva a dare uno stimolo congiunturale, cioè momentaneo, alla crescita economica, ora si sta constatando che tale strumento sta perdendo di efficacia. La sua efficacia, al di fuori dei valori finanziari (quotazioni di borsa, obbligazioni, titoli di Stato), nel trasferire l'impulso monetario all'economia reale è stato nullo o al più molto scarso. I mercati finanziari si sono ripresi, l'economia reale invece no.
Questa, dunque, è la distorsione finanziaria causata in questi anni recenti dall'uso ed abuso della QE, vale a dire dalle decisioni di politica economica adottata da chi detiene il potere sulla politica monetaria dei Paesi sviluppati, le banche centrali.
Un'altra conseguenza di tali decisioni di politica economica (e monetaria) è stata quella dei minori rendimenti reali delle gestioni patrimoniali. Infatti i tassi di rendimento più bassi, determinati dalla QE significano maggiori passività per copertura di impegni futuri di spesa a carico di fondi pensione, compagnie di assicurazioni ed in generale per i prestatori di denaro (banche, individui e famiglie). Si può più facilmente comprendere questo effetto con un esempio concreto. Un padre sa che dovrà sostenere un certo ammontare di costi per il mantenimento agli studi del figlio quando andrà per esempio all'università e decide di mettere da parte ogni anno delle risorse che devono dargli un certo rendimento. Se tale rendimento sarà troppo basso rispetto a quanto si attendeva significa che gli mancheranno delle risorse e cioè che cresce il valore attuale delle sue passività a copertura degli impegni futuri, il mantenimento agli studi del figlio. Tale padre, se non può aumentare il proprio reddito da lavoro, dovrà trovare degli impieghi più remunerativi per il suo capitale investito allo scopo, i suoi risparmi allocati annualmente e destinati al mantenimento futuro del figlio. Il padre non lascerà i suoi soldi investiti in banca, ma comprerà un piccolo terreno al villaggio nella speranza di ottenere un permesso di costruzione e ricavarci un utile, ma con il rischio che il permesso di costruzione non gli venga concesso e che debba poi rivendere con una perdita quanto comprato perché non potrà più trovare un compratore al momento opportuno.
Pertanto una conseguenza della distorsione finanziaria connessa alle varie forme di QE è proprio la ricerca di rendimenti più elevati in termini assoluti, cioè a prescindere dal rischio implicito per ciascuna classe di bene d'investimento. Dalla distorsione finanziaria di cui si diceva ne deriva quindi un'ulteriore conseguenza: la ricerca da parte dei prestatori di denaro (i soggetti di cui sopra e cioè fondi pensione, compagnie di assicurazioni, banche e privati) di migliori rendimenti a scapito di altre considerazioni. Nel tempo tutto ciò comporta una allocazione non ottimale delle risorse verso impieghi a maggiore rischio. Poiché i Paesi emergenti offrono strutturalmente rendimenti più alti, come è ovvio, si potrebbe giungere alla conclusione che paradossalmente la distorsione finanziaria in atto ha benefici effetti sulle economie dei Paesi emergenti ed in particolare di quelli asiatici. Esaminiamo ora un po' più da vicino questa ipotesi.
I pochi rendimenti dei Paesi emergenti
Nello specifico, uno degli effetti maggiori e più visibili della varie manovre di QE lanciate dalla Fed, la banca centrale americana, dall'ultimo trimestre 2008 fino allo scorso dicembre - si tratta della QE1, la QE2, l'operazione "Twist", la QE3, la QE4 - è stato, come per i Paesi sviluppati, quella della forte riduzione dei tassi d'interesse, per tutte le diverse classi di titoli di debito dei paesi emergenti. In particolare ricordiamo l'andamento dell'indice delle dei titoli (obbligazioni) ad alto rendimento delle imprese dei Paesi emergenti [4]: ancora nell'estate del 2008 era situato attorno ad un tasso di rendimento di circa il 10 % annuo; nel periodo compreso tra l'ultimo trimestre 2008 ed il primo semestre 2009 era stato attorno al 20 % annuo con un picco al 25 % per arrivare a tornare ai valori di partenza attorno al 10 % verso la fine della QE1 a metà 2010. Dalla fine della QE2 al dicembre 2012 [5] i rendimenti per gli indici dei Paesi emergenti sono stati del 4,38 % sul debito pubblico verso l'estero[6], del 5,45 % sul debito in valuta locale [7], del 4,55% sul debito delle grandi imprese [8], del 6,67 % sul debito delle imprese ad alto rendimento (ed alto rischio) [9]. I dati di cui sopra sono però elementi sintetici che in realtà contengono una grande dispersione relativa sia ai differenti Paesi che ai casi singoli. Sintetizzando diverse considerazioni, per i Paesi emergenti l'effetto della distorsione finanziaria causata dal fenomeno della QE - in altri termini della sommatoria delle varie manovre - è differente per ciascun gruppo di Paesi. Per alcuni Paesi emergenti, in generale quelli esportatori di materie prime agricole -alcuni Paesi africani - e di energia - vari Paesi del Medio Oriente - l'effetto, trainato dai maggiori investimenti o da incrementi di prezzo, è quello di una crescita reale del PIL. Questo è il caso anche di un paese come il Messico, per una serie di differenti ragioni ed in particolare di prossimità al mercato di sbocco statunitense oltre che di opportunità di incremento delle esportazioni di materie prime verso i Paesi asiatici del Pacifico. Per altri Paesi, come il Brasile, l'effetto della QE è quello di un rafforzamento del tasso di cambio. In generale, però, questo effetto positivo di crescita reale non è vero o è solo parzialmente vero per la gran parte dei Paesi asiatici. Relativamente ad essi bisogna, infatti, sviluppare delle considerazioni sulle tensioni inflazionistiche interne. Per chiarirci, un fattore che accomuna in generale i Paesi emergenti è la maggiore flessibilità delle politiche dei tassi d'interesse, rispetto ai paesi sviluppati: restrittive (ed in alcuni casi fortemente restrittive come nel caso della Turchia, mentre neutre sono state nel caso dei due maggiori paesi asiatici India e Cina) nel periodo 2008 - 2012, nel 2013 sono tutte ampiamente espansive e da ciò se ne può generalmente ricavare una buona attesa di crescita economica nominale di questi Paesi per l'anno in corso. La crescita economica nominale si tramuta in crescita reale quando l'incremento dei flussi di investimento genera maggiore produzione di beni che trovano un effettivo maggiore sbocco di mercato. Questo è il caso di una serie di materie prime ed in particolare di quelle agricole determinato dall'incremento della popolazione e dall'innalzamento del livello qualitativo della nutrizione, oltre che dalla minore disponibilità in varie aree del mondo di alcuni fattori di produzione (terreni agricoli e risorse idriche destinabili all'irrigazione). Diverso è invece il caso di quei Paesi, in generale quelli sviluppati, i cui consumi sono stagnanti o in fase recessiva. Inoltre osserviamo che nei Paesi emergenti i tassi d'interesse reali (vale a dire depurati dell'inflazione - quella ufficialmente dichiarata, s'intende) non dappertutto sono positivi. In particolare tassi d'interesse reali negativi si riscontrano in India, Thailandia e Turchia, oltre che in Sud Africa ed Argentina, fuori dell'Asia. Per i rimanenti Paesi asiatici i tassi reali sono molto bassi - tranne che in Cina, dove però il dato ufficiale sull'inflazione è alquanto discutibile - e questo è un classico indice . Ne consegue che accanto ad un attesa di crescita economica ci si deve aspettare anche conseguenze sull'inflazione interna di questi Paesi.
Le tensioni guerriere
Ovviamente a soffiare sui prezzi asiatici non è solamente la QE di questi anni, ma anche fattori strutturali interni - ad esempio relativi a certe carenze strutturali e di organizzazione del mercato interno. In certi casi le tensioni inflazionistiche sono determinate scelte programmatiche di politica economica come il mantenimento di un tasso di cambio svalutato per favorire le esportazioni, la strategia adottata negli ultimi decenni dalla Corea del Sud. In altri casi, l'inflazione è invece programmaticamente voluta, come volano per una crescita economica elusiva. È il caso della politica di svalutazione del tasso di cambio - circa il 20% in pochi mesi [10] - decisa dal nuovo governo giapponese di Shinzo Abe, come ormai ultimo ed estremo rimedio ad un ventennio e più di stagnazione economica. Accenniamo qui, ma non approfondiamo perché il tema sarebbe davvero lungo, che si potrebbe fare una similitudine tra l'inefficace politica giapponese di questi ultimi decenni, fatta di bassi tassi d'interesse ed esplosione del debito pubblico e la QE di questi ultimi anni della Fed. Notiamo solo che una svalutazione artificialmente indotta è probabilmente, almeno nel caso del Giappone, una politica di discutibile efficacia nel generare crescita economica reale a causa della scarsa comprimibilità delle importazioni del Sol Levante. Viceversa, è noto dalla storia economica che una svalutazione competitiva induce spesso ad una guerra valutaria, che poi conduce ad una guerra commerciale. Da quest'ultima ad una guerra guerreggiata il passo poi è breve. Forse, più che alla contesa territoriale per delle isolette disabitate, la ragione delle recenti tensioni militari tra Cina ed appunto il Giappone andrebbe ricercata proprio nella recente svalutazione giapponese. Il punto è, infatti, che la manovra giapponese sul tasso di cambio comporta notevoli conseguenze per tutti i paesi dell'area ed in particolare, Corea del Sud, Taiwan e, come si diceva, la Cina. Sappiamo infatti che tutta l'area ha la necessità di mantenere elevati saldi attivi delle esportazioni, per evitare delle cadute della crescita economica da esse trainata. Senza di essa infatti finirebbero per esplodere le contraddizioni sociali e politiche di tutta l'area, ma che caratterizzano soprattutto la Cina.
In sintesi la QE di questi anni per i Paesi emergenti in generale, ma più in particolare per i Paesi asiatici, comporta accentuati rischi di inflazione, di guerre valutarie e commerciali ed infine di possibili ed autentici eventi bellici.
[1]"[The Federal Reserve has] 25 years of success in keeping inflation low and stable, not just in the United States but around the world."
[2] "[S]avers have many hats. They may own fixed income instruments, like bonds, but they also may own stocks or a house or a business. . . And those values have gone up, the stock market has roughly doubled, as you know, in the past few years."
[3]Vedi: MdO, AsiaNews, 05/02/2013, Segnali di guerra in Asia, mentre il sistema monetario si avvicina al collasso
MdO, AsiaNews, 18/02/2013, L'Associazione Transatlantica, un passo verso la moneta unica e il governo mondiale
[4] corporate EM bond index broad diversified
[5] Elaborazione su dati Bloomberg
[6] EM bond index global diversified
[8] EM bond index broad diversified
[9] EM bond index broad diversified high yield
[10] sebbene negli ultimi giorni si sia rafforzato, il tasso di cambio con il dollaro in certi momenti è arrivato ad essere superiore al 25 % rispetto ai valori dello scorso settembre / ottobre.