Le radici della violenza in Manipur, un conflitto stratificato
Negli scontri in corso nello Stato nord-orientale dell'India si intrecciano diversi elementi legati anche alla storia travagliata della regione: l’identità etnica, la disponibilità di armi, l’afflusso di profughi dal Myanmar, il commercio di droga e il ruolo delle donne. Il giornalista Samrat Choudhury, autore di un recente libro sul Manipur, ad AsiaNews : non si tratta di un conflitto religioso ed è difficile prevedere una stabile risoluzione pacifica ora.
Milano (AsiaNews) - Anche il luogo di sepoltura per decine di persone uccise negli scontri settari degli ultimi mesi è diventato motivo di tensione culminate in nuove violenze tra le comunità Kuki e Meitei nello Stato nord-orientale del Manipur. Per l’inumazione dei cadaveri è stato proposto un terreno che si trova in quella che ora è diventata una "zona cuscinetto" tra il distretto di Bishnupur, dominato dai Meitei, e Churachandpur, dove vivono le popolazioni Kuki. Con un’ordinanza emessa ieri l’Alta corte del Manipur ha chiesto il mantenimento dello status quo, prolungando una situazione che da tre mesi non trova soluzione, se non la stretta separazione geografica delle popolazioni indigene garantita dalla presenza dell’esercito indiano.
Le violenze interetniche sono scoppiate il 3 maggio dopo la proposta di inserire anche i Meitei tra le tribù riconosciute dell’India che secondo i programmi governativi hanno diritto a sussidi e quote nell’istruzione e nella pubblica amministrazione in quanto popolazioni svantaggiate.
Subito definito un conflitto interreligioso (i Kuki sono in prevalenza cristiani e i Meitei in prevalenza indù), si tratta in realtà di uno scontro in cui si intrecciano diversi elementi: l’identità etnica, la disponibilità di armi, l’afflusso di profughi dal Myanmar, il commercio di droga e l’importante ruolo ricoperto negli scontri anche dalle donne, emerso solo dopo la diffusione di un video - risalente al 4 maggio - di violenze sessuali da parte di un gruppo di uomini Meitei contro madre e figlia Kuki.
La situazione attuale ha radici nella divisione amministrativa nel Manipur durante e dopo il periodo coloniale britannico, ha spiegato ad AsiaNews il giornalista Samrat Choudhury, autore del libro “Northeast India. A political history”: “I britannici esercitavano in alcune regioni dell’India un controllo indiretto perché il Paese (al tempo si trattava di tutto il subcontinente) era diviso in diversi Stati principeschi, tra cui quello del Manipur, risalente al 33 a. C. e che nel 1891 passò sotto il contro coloniale. L'ultimo maharaja, Bodhchandra Singh, restava a capo della difesa e delle relazioni estere”, ha spiegato l’esperto. In concomitanza con l'indipendenza nel 1949, il re aveva inizialmente firmato un accordo per mantenere il regno autonomo, ma, convocato a Shillong, il suo principato è stato fuso con il resto del territorio indiano.
Così il Manipur (il “gioiello dell’India” come lo ha poi definito il primo premier indiano Nehru) è entrato a far parte dell’Unione, anche se solo nel 1972 è diventato a tutti gli effetti uno Stato federato. Successivamente il nord-est indiano - ancora oggi considerato una piccola appendice territoriale abitata da una pletora di etnie tribali diverse - ha avuto un percorso storico diverso dal resto del Paese: “Negli anni ‘60 cominciarono i disordini politici perché il Manipur non aveva un'assemblea statale o un governo eletto. Concessioni che poi sono arrivate, ma ormai le frange più estremiste avevano perso fiducia nel governo indiano e, ispirati dalla lotta per l’indipendenza nel vicino Nagaland, hanno dato vita a gruppi armati”, spesso di ispirazione maoista che con la loro insurrezione hanno tormentato lo Stato nord-orientale fino ai primi anni 2000, ha continuato Choudhury. “C’è stata una lunga militarizzazione, con l’esercito indiano sempre presente che in pratica ha imposto una legge marziale e faceva rispettare il coprifuoco”.
A questo punto entra in gioco la geografia del Manipur, diviso tra le zone collinari a sud - in cui hanno sempre vissuto i Kuki e altri gruppi indigeni come i Naga - e la valle, occupata dai Meitei, che oggi compongono oltre il 50% della popolazione. “I territori originari del regno comprendevano le valli e solo in un secondo momento i maharaja hanno esteso il loro dominio alle colline, dove i villaggi erano però governati da capi tribù”. Ciò è importante perché oggi i Meitei si dichiarano gli unici veri cittadini eredi dello Stato principesco, mentre attaccano i Kuki accusandoli di essere “migranti illegali” o “narcotrafficanti”.
È vero che le migrazioni dal Myanmar, dove da oltre due anni è in corso un brutale conflitto civile, hanno complicato la situazione, perché i profughi - in maggior parte di etnia Chin che si rifugiano nel vicino Mizoram - sono etnicamente simili ai Kuki. “E per questa ragione ci sono tensioni dal 2021”, ha aggiunto Samrat Choudhury. Le accuse secondo cui solo i Kuki sarebbero coinvolte nel traffico di droga sono erronee: “C’è sicuramente un intenso movimento transfrontaliero, ma nel commercio di stupefacenti sono coinvolte tutte le etnie, i soldi non hanno comunità”, precisa l’autore. “I maggiori narcotrafficanti si concentrano nei centri urbani, mentre sulle colline si trovano soprattutto contadini e profughi che fanno di tutto per sopravvivere. In molti casi nella gestione dei traffici sono coinvolti politici locali o la polizia”.
Allo stesso modo la religione è stata manipolata dagli interessi politici: “Anche se i Kuki e i Naga sono quasi tutti cristiani e i Meitei sono in prevalenza indù", ha specificato Choudhury. “La violenza è scoppiata per una questione comunitaria perché riguarda l’allocazione di risorse da parte dello Stato” ha commentato Choudhury paragonando la proposta di includere i Meitei nelle tribù svantaggiate “alle politiche di inclusione delle comunità ispanica o afro-americana negli Stati Uniti, ma è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso”.
Così come la responsabilità di quello che sta succedendo ora è politica. Anche secondo altri osservatori il governo di Delhi, guidato dal partito ultranazionalista indù del Bharatiya Janata Party da cui proviene il primo ministro Narendra Modi e che è capo anche dell'amministrazione del Manipur non ha agito politicamente per fermare gli scontri. “È difficile prevedere cosa potrebbe succedere ora: le etnie del Manipur sono presenti anche in altri Stati e potrebbe verificarsi per questo uno spillover di violenza che coinvolge altri gruppi tribali, oppure il conflitto potrebbe riproporsi in maniera simile in altre regioni del nord-est indiano”.
Al momento sono state schierate diverse forze di sicurezza che stanno prendendo le parti di una comunità o dell’altra e folle di donne impediscono l’intervento dell’esercito. Le donne sono infatti sempre state molto attive, al punto che hanno organizzato rivolte armate (Nupi Lan, “guerra delle donne”) anche durante il periodo coloniale, in particolare nel 1904 e nel 1939 quando si sono opposte prima all’imposizione del lavoro forzato agli uomini e poi all’esportazione di riso dallo Stato in un periodo di carestia. Oggi l’organizzazione femminsta Meira Paibis (che significa “donne tedofore”) della comunità Meitei - che in passato si è battuta a lungo contro le violazioni dei diritti umani, il consumo di alcol e droghe e altre questioni sociali - sta svolgendo un ruolo di primo piano e secondo alcuni stanno incitando gli uomini alla violenza (anche sessuale) contro le tribù Kuki, tradizionalmente legate al possesso di armi, “per questo i Kuki non hanno mai avuto paura degli scontri armati”
Quello che è certo è che i recenti scontri hanno sconvolto il Manipur e tornare indietro alla convivenza pacifica tra comunità (realizzabile solo con un importante intervento politico) appare sempre più complicato.
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