Le nuove vie per salvare le lingue tribali
Oltre 200 idiomi sono scomparsi in India negli ultimi 50 anni e altri 197 sono considerati a rischio. Le lingue degli adivasi sono per lo più orali. Quelle dotate di un sistema di scrittura non trovano spazio online e nei documenti ufficiali. Ma qualcosa negli ultimi anni sta cambiando: sono sempre di più le iniziative dal basso per preservare il patrimonio culturale delle tribù indigene.
New Delhi (AsiaNews) - Il fatto che a una lingua corrisponda un sistema di scrittura non è affatto scontato. In India sono centinaia le lingue che esistono solo in forma orale e rischiano di sparire nei prossimi decenni perché parlate solo da una ristretta comunità, nella maggior parte dei casi di tribali. Sono lingue che non vengono utilizzate al di fuori del contesto familiare o tribale, assenti solitamente nei documenti ufficiali o sui social media. Ma qualcosa negli ultimi tempi sta cambiando.
Ganesh Birua, che oggi ha 23 anni, ha scoperto solo nel 2014 che la sua lingua adivasi, l’ho, possiede un alfabeto, chiamato warang citi. Dopo averlo imparato da autodidatta ora cerca di diffonderne la conoscenza attraverso i suoi profili social. Linguisti e ricercatori lo hanno contattato per inserire il warang citi nello standard unicode, il sistema che assegna un codice univoco a ciascun carattere in modo che gli script linguistici abbiano lo stesso aspetto in tutte le tastiere dei dispositivi digitali del mondo.
Nel 2008 Malati Murmu, stanca di leggere notizie solo in inglese, hindi e poche altre lingue, ha fondato un giornale in lingua santali, il Fagun, che all’inizio circolava in sole 500 copie, mentre ora ne vengono stampate 5mila. Come metodo di scrittura viene usato l’ol chiki, un alfabeto inventato nel 1925 dallo scrittore Ragunath Murmu. Per Malati, obiettivo principale del quotidiano è “proteggere la lingua e la letteratura santali e promuovere la cultura tribale”.
Banwang Losu ha cominciato nel 2001, quando aveva solo 17 anni, a pensare a un sistema di scrittura per il wancho, la sua lingua madre, parlata soprattutto nell’Arunachal Pradesh, che sostituisse le lettere latine. Nel 2019 l’alfabeto che ha elaborato in 20 anni di ricerca è stato inserito nello standard unicode internazionale.
Nel 1971 l’India ha condotto un censimento linguistico, escludendo però tutte le lingue con meno di 10mila parlanti, soglia che per le Nazioni unite determina il rischio estinzione. Negli ultimi 50 anni ne sono scomparse almeno 220 e altre 197 sono considerate in pericolo. Di queste, solo due rientrano nell’ottavo allegato alla Costituzione indiana che riconosce 22 lingue ufficiali in tutto il Paese. Ma secondo alcune stime sono oltre 19.500 i dialetti e gli idiomi nativi parlati nel subcontinente indiano. Oltre all’ho e al santali, solo il soura, il munda e il kui sono le lingue tribali che possiedono un sistema di scrittura.
I tribali, o adivasi, sono le popolazioni indigene del subcontinente indiano. Si tratta di un mosaico di popoli e tribù ai margini della società, poveri, con uno scarso accesso all’istuzione, e per lo più animisti o cristiani.
Perdere una lingua equivale a perdere un intero patrimonio culturale: "Le lingue tribali sono un tesoro di conoscenze sulla flora, la fauna e le piante medicinali. Di solito queste informazioni vengono passate di generazione in generazione. Tuttavia, quando una lingua scompare, scompaiono anche le conoscenze ad essa legate”, ha detto Ayesha Kidwai del centro di linguistica della Jawaharlal Nehru University a New Delhi.
Il problema di poter parlare e scrivere nella propria lingua madre si fa più pressante con internet. Secondo statistiche del 2017, il 70% utenti online indiani si fidano di più di un contenuto nella propria lingua madre che di uno in inglese. Non avere a disposizione contenuti nella propria lingua natia è un ostacolo enorme in termini di accesso alla conoscenza e impoverisce il dibattito culturale. In un Paese come l’India, dove gli utilizzatori di internet sono 658 milioni - meno di metà della popolazione totale - e dove le campagne di disinformazione sui social sono all’ordine del giorno, è un problema ancora più grande.
Il modo più immediato di documentare una lingua a rischio e sprovvista di un sistema di scrittura è quello di raccogliere materiale audio-visivo: registrazioni di persone che parlano la loro lingua madre. In questo caso però si corre il pericolo di creare un grande archivio e mantenere comunque isolata la comunità tribale.
Nel 2014 il giornalista Shubhranshu Choudhary ha creato CGNet Swara, una piattaforma online dedicata alla regione centrale del Gondwana, in cui è possibile ascoltare storie e notizie in lingua gondi. Chiunque, in qualunque parte dell’India può registrare un contenuto chiamando il numero collegato al sito. Le storie possono poi essere ascoltate via internet (cosa non scontata nei contesti rurali) o chiamando un numero di telefono. È un modello di dialogo come qualunque altro social network, ma che rispetta la tradizione orale della tribù gondi. La loro lingua è infatti parlata da due milioni di persone, ma solo 100 sanno scriverla.
Dotare una lingua di un proprio sistema di scrittura, uno script, non si rivela quindi sempre come soluzione ultima al problema. L’anno scorso l’alfabeto ho, il warang citi, è stato rimosso dallo standard unicode per mancanza di “di una moderna comunità di utenti nativi in grado di utilizzare l’alfabeto in maniera mnemonica per un linguaggio familiare” e per “la natura poco compresa di questo sistema di scrittura”. In altre parole, è necessario che la comunità di riferimento sia in grado di leggere e scrivere, non solo di parlare la propria lingua.
Altri membri della comunità sono comunque riusciti a creare tastiere e applicazioni in ho. Hercules Munda, per esempio, ha creato un’applicazione di giochi linguistici utilizzando alcuni idiomi della famiglia munda – di cui la lingua ho fa parte e tribù a cui lui stesso appartiene – e ha scoperto che a scaricarla sono stati soprattutto genitori trasferitisi in città, che quindi hanno abbandonato il contesto tribale di origine e che usano l’app per far giocare i figli.
Le iniziative sono individuali perché lo Stato indiano fa poco o nulla in termini di preservazione delle lingue e delle culture tribali. Nel 2013 è stato fondato lo Scheme for Protection and Preservation of Endangered Languages (Sppel), il cui “unico scopo”, si legge sul sito, “è documentare e archiviare le lingue del Paese che in pericolo o che potrebbero essere in pericolo nel prossimo futuro”.
Un annuncio positivo è venuto l’anno scorso dallo Stato orientale dell’Orissa, dove vivono la maggior parte degli adivasi indiani: i libri di testo delle scuole elementari verranno pubblicati in 21 lingue tribali utilizzando l’alfabeto oriya – tranne per il santali, che potrà continuare a usare l’ol chiki. Il progetto, chiamato Samhati, non è di facile attuazione. Oltre al problema della standardizzazione di tutti i dialetti (le comunità tribali dell’Orissa sono almeno 62 e i bambini che devono ricevere un’istruzione tribale sono almeno 2 milioni), ad almeno 1.000 insegnanti sarà stato chiesto di acquisire competenze linguistiche in lingue tribali.
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19/09/2020 08:00