12/03/2015, 00.00
PAKISTAN
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Lahore, 20enne cristiano torturato e ucciso dalla polizia

Zubair Masih ha subito violenze per una notte intera sotto la custodia della polizia. Era stato fermato assieme ad alcuni parenti, in seguito alle accuse di furto avanzate da un musulmano contro la madre. L’intervento di attivisti e società civile ha consentito l’apertura di un’inchiesta contro gli agenti. Poche le speranze per la famiglia cristiana di ottenere giustizia.

Lahore (AsiaNews) - La polizia pakistana ha torturato a morte un giovane cristiano, la cui mamma era stata accusata in precedenza di aver rubato dell'oro dalla casa del datore di lavoro, un musulmano. Secondo gli inquirenti la donna avrebbe preso alcuni oggetti in oro dall'abitazione di Abdul Jabar, presso il quale era impiegata come domestica a fronte di un compenso inferiore ai 20 dollari al mese. Il 20enne Zubair Masih era stato prelevato da un gruppo di agenti, che stavano indagando sulla denuncia di furto a carico della madre, Ayesha Bibi; tuttavia il giovane, a differenza dei familiari, è stato trattenuto ed è deceduto nelle ore successive al fermo sotto la custodia delle forze dell'ordine. Il fatto è avvenuto a Lahore, nel Punjab, e secondo le prime ricostruzioni fornite dagli attivisti di Claas (Center for Legal Aid Assistance and Settlement) il ragazzo avrebbe subito "torture e violenze per tutta la notte" da parte dei poliziotti. La mattina successiva il suo corpo, privo di vita, è stato "scaricato davanti alla casa dei genitori". 

La vicenda nasce dall'accusa di furto avanzata da Jabbar nei confronti di Ayesha (nella foto), che la donna respinge con forza. Una sera il datore di lavoro musulmano ha fatto irruzione, con un seguito di poliziotti, nella casa della vedova cristiana, accusandola di aver rubato oro per un valore di poco superiore ai 350 dollari. 

La polizia ha picchiato e prelevato la donna, trascinandola poi in un secondo momento presso la casa del fratello Arshad Masih, dove vivono i suoi due figli. Secondo il datore di lavoro musulmano, Ayesha avrebbe consegnato loro la refurtiva, mentre la madre continuava a proclamarsi innocente. 

Jabbar ha iniziato a picchiare con violenza Ayesha, sotto lo sguardo indifferente dei poliziotti; poi gli agenti hanno prelevato l'intera famiglia, conducendola nella vicina caserma per continuare l'interrogatorio. Durante le ore successive gli agenti hanno più volte usato violenze e torture contro la famiglia cristiana, fratturando un braccio alla donna. Al termine gli agenti hanno liberato tutti i familiari, trattenendo il solo Zubair. 

La famiglia ha subito temuto per la sorte del giovane, perché spesso la polizia usa violenza durante gli interrogatori, in particolare contro i cristiani. E i timori si sono rivelati fondati quando, la mattina del 6 marzo, essi hanno scoperto il cadavere del 20enne davanti alla porta di casa. I medici hanno confermato che il decesso è avvenuto in seguito a torture. 

Per due giorni la famiglia ha protestato davanti agli uffici di polizia; in seguito all'interessamento di attivisti e società civile, l'8 marzo gli inquirenti hanno aperto un'inchiesta a carico di un ufficiale e tre agenti. A dispetto delle promesse di giustizia, con molta probabilità la vicenda si concluderà con un misero risarcimento in denaro alla famiglia mentre i poliziotti resteranno impuniti. 

Con più di 180 milioni di abitanti (di cui il 97% professa l'islam), il Pakistan è la sesta nazione più popolosa al mondo e  seconda fra i Paesi musulmani dopo l'Indonesia. Circa l'80% è musulmano sunnita, mentre gli sciiti sono il 20% del totale. Vi sono presenze di indù (1,85%), cristiani (1,6%) e sikh (0,04%). Gli attacchi contro le minoranze etniche o religiose si verificano in tutto il territorio nazionale, ma negli ultimi anni si è registrata una vera e propria escalation. Decine gli episodi di violenze, fra attacchi mirati contro intere comunità (Gojra nel 2009 o alla Joseph Colony di Lahore nel marzo 2013), luoghi di culto (Peshawar nel settembre 2013) o abusi contro singoli individui (Sawan Masih e Asia Bibi, Rimsha Masih o il giovane Robert Fanish Masih, anch'egli morto in cella), spesso perpetrati col pretesto delle leggi sulla blasfemia.

 

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