La 'tregua eterna' della guerra in Ucraina
La storia non ha insegnato nulla, altrimenti non ci sarebbero più guerre da molti secoli. Ma mentre ci si chiede come riuscire finalmente a far cessare il fuoco, si può comunque trovare ispirazione in una data lontana, quando nel 1686 si mise fine alla guerra tra il regno dello zar di Russia e quello polacco-lituano della Reczpospolita.
È trascorso un mese dal primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, e gli scenari apocalittici ad esso collegati, evocati nelle roboanti adunate allo stadio Lužniki e in tutte le altre sedi moscovite da Putin e da Medvedev, non sembrano realizzarsi, nonostante le immancabili piogge di missili e i continui proclami della definitiva conquista di Bakhmut. Anche dalla parte avversa si avvicendano le fermissime prese di posizione americane ed europee sulle forniture di armi modernissime e potentissime, per iniziare finalmente la travolgente reconquista del Donbass, della Crimea e magari anche di Kaliningrad e San Pietroburgo, per rimanere comunque impantanati nel lento disgelo di Bakhmut.
L’allontanarsi della resa dei conti ipersonica e nucleare ha cominciato timidamente a rinfocolare le speranze di una via per uscire dalla tragedia bellica, se non con la pace, almeno con un qualche accordo per una tregua. Dopo le paterne carezze del leader cinese Xi Jinping a quello che appare ormai come il suo vassallo moscovita, a cui ha raccomandato di non esagerare con le bombe, da oriente a occidente ci si chiede come riuscire finalmente a far cessare il fuoco, anche perché le fiorenti industrie degli armamenti sembrano essere ormai meno interessate a un conflitto che sta creando più spese che guadagni.
La storia certo non insegna nulla, altrimenti non ci sarebbero più guerre da molti secoli; ma si può comunque trovare ispirazione in una data lontana, quando nel 1686 si mise fine alla guerra tra il regno dello zar di Russia e quello polacco-lituano della Reczpospolita. Il conflitto era iniziato nel 1654, e si concluse con l’accordo passato alle cronache di allora come la “Pace Eterna”, in russo il Večnyj Mir, per dare forma al russkij mir, il volto europeo dell’impero. Fu appunto una tregua, che si trasformò in accordo “definitivo” tra i due grandi contendenti sulla parte orientale dell’Europa, siglato a Mosca dal voevoda polacco Poznanskij e dal principe russo Golitsyn, con un ampio preambolo e 33 articoli.
La trattativa confermò allora i risultati di una tregua precedente, quella di Andriusovo (un villaggio stile Bakhmut, ai confini tra Russia e Polonia) nel 1667, quando Mosca si era ricomprata Kiev per la somma allora fragorosa di 146 mila rubli, assicurando la città-madre dell’antica Rus’ al possesso dello zar, perduto solo nel 1991 alla fine dell’Urss. In seguito a questa cessione, anche il patriarcato di Costantinopoli assegnò a quello di Mosca il diritto di nominare il metropolita di Kiev, che sarebbe rimasto quindi un membro del Sinodo della Chiesa russa. Proprio questo aspetto ecclesiastico dell’accordo è stato poi contestato nel 2018, quando il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli ha concesso il Tomos di autocefalia alla Chiesa di Kiev, affermando che i diritti seicenteschi di Mosca erano da intendersi come una “tutela temporanea” ormai decaduta.
La Pace Eterna consegnò alla Russia i territori dell’attuale Ucraina e Bielorussia, e soprattutto l’Etmanato (regno semi-nomade) dei Cosacchi della Zaporožskaja Seč, quello che oggi è grosso modo il Donbass, la terra in cui anche allora si erano consumati gli scontri più violenti e decisivi. Proprio i cosacchi avevano iniziato le rivolte contro la Reczpospolita, invocando la protezione dei primi zar della dinastia Romanov, Mikhail e Aleksej, dando in questo modo inizio alla storia dell’Ucraina. I loro territori erano infatti definiti dai russi come ukrainy, zone libere e “di confine”, perché stavano al di fuori delle terre possedute dai boiari e dalla Chiesa, dove i contadini erano costretti alla servitù della gleba. La Polonia riconobbe dunque alla Russia il protettorato della Levoberežnaja Ukraina, la zona a occidente del Dnepr, mantenendo per sé i territori della Galizia e della Volynia, le regioni ucraine rimaste da allora legate ai regni dell’occidente europeo. Veniva anche riconosciuta la libertà di appartenere a una qualunque delle giurisdizioni ecclesiastiche, sia quelle ortodosse (già allora piuttosto variegate), sia quelle cattoliche, divise tra i fedeli di rito latino e i greco-cattolici, ostili tra loro anche più che rispetto agli stessi ortodossi.
La Russia si impegnava ad annullare i suoi precedenti accordi con l’impero Ottomano e con i tatari del Khanato di Crimea, anzi si univa alla “Lega Santa” appena inaugurata dal papa Innocenzo XI con germanici, polacchi e veneziani per sconfiggere i turchi, una guerra tra cristiani e musulmani che si concluse a sua volta con una “tregua definitiva” nel 1699. I russi nel frattempo si riversarono sui tartari con le campagne di Crimea del 1687-89, senza riuscire a conquistare la penisola, che soltanto l’imperatrice Caterina II riuscì a sottomettere un secolo più tardi. L’esito di queste alleanze fu poi la guerra di Crimea del 1853, in cui l’impero russo riuscì a inimicarsi l’intera Europa, per finire rovinosamente nella fase rivoluzionaria che portò alla “contrapposizione eterna” della guerra fredda dopo le guerre mondiali nel secolo scorso, oggi proclamata dalla guerra putiniana come il “nuovo ordine mondiale”.
I russi assicurano di essere pronti in qualunque momento a sedersi a un tavolo di trattative, per riaffermare i diritti della Pace Eterna seicentesca, anche solo accontentandosi della parte Pravoberežnaja, l’Ucraina a oriente del Dnepr, già annessa con i referendum della Crimea e delle quattro regioni del Donbass. In realtà il Cremlino avverte che in Russia si temono le pressioni dei “nazionalisti”, come vengono chiamati i settori più radicali e bellicosi che vorrebbero anche la parte occidentale con Kiev, sul cui trono insediare il cuoco Prigožin, erede degli atamani cosacchi. E comunque, secondo la versione di Mosca, se non iniziano le trattative di pace la colpa è sempre degli anglosaksy, che non vogliono cedere il loro dominio sull’impero americano ed europeo e sul resto del mondo. Se non fosse per Biden, sostengono i russi, Zelenskyj si sarebbe già sottomesso, e Washington non permetterà alcuna trattativa, né agli ucraini né agli europei, almeno fino alle elezioni presidenziali di novembre 2024, quando i russi faranno un tifo sfegatato per Trump, o per chiunque possa sostituire gli odiati Democratici, che nel nome stesso del proprio schieramento politico esprimono tutta la depravazione dell’Occidente.
Nel frattempo il sostegno all’Ucraina, o in alternativa le iniziative per la pace, distinguono gli schieramenti politici dei Paesi interessati, soprattutto in Europa, usando le dimensioni ideologiche sottese dai termini “atlantismo”, “europeismo”, “pacifismo” e “putinismo”; non per prendersi davvero cura di quella che papa Francesco chiama la “martoriata Ucraina”, ma per assicurarsi voti e consensi nelle proprie diatribe casalinghe. Gli organismi internazionali latitano, a cominciare dall’Onu, ormai un sontuoso e dispendioso relitto novecentesco, non più credibile della casa reale inglese o spagnola. In campo ecclesiastico cerca di proporsi un altro istituto che ha evidentemente fatto il suo tempo, il Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc), che ha proposto a Francesco di appoggiare una “tavola rotonda” con i rappresentanti delle Chiese ucraine e del patriarcato di Mosca, almeno per risolvere la spinosa questione della Lavra delle Grotte di Kiev. L’incontro si dovrebbe tenere a Ginevra, una delle sedi neutrali anche dal punto di vista religioso, dove il giovane vescovo Kirill, l’attuale patriarca di Mosca, sviluppava l’ecumenismo “sovietico” negli anni di Brežnev, e dove si trovano anche gli uffici operativi del patriarcato ecumenico di Costantinopoli.
Il patriarca Bartolomeo in realtà non sembra molto in sintonia con i membri del Wcc, avendo rilasciato in questi giorni dichiarazioni infuocate contro la Chiesa russa, e invitando gli organismi del dialogo interreligioso a unirsi per emarginare il patriarcato di Mosca, “corresponsabile dei crimini di guerra” insieme al Cremlino, soprattutto della deportazione dei bambini ucraini. In effetti, proprio le parrocchie e i monasteri ortodossi russi si sono subito messi a disposizione per accogliere e “rieducare” gli orfani; ma al di là di questo aspetto che ha portato alla condanna internazionale del tribunale dell’Aja (altro organismo ormai assai poco incisivo), rimane la questione: da dove cominciare a costruire la pace?
Il papa si propone come mediatore, e la sua personalità rimane una delle poche veramente autorevoli a livello internazionale, non solo in campo ecclesiastico. La tregua non verrà certo decisa dai chierici, e forse neppure dai generali o dai politici: molto dipenderà dai potentati economici, e dai conti tra i padroni delle armi e quelli delle fonti energetiche. Appare sempre più probabile che la storia finirà per ripetersi: sarà di nuovo una “tregua eterna”, in cui entrambi i contendenti si manterranno ben saldi sulle proprie convinzioni e definizioni territoriali e geopolitiche, come insegnano anche molte situazioni analoghe in varie parti del mondo, a partire da Israele e Palestina, dove guerra e tregua si alternano dai tempi di Abramo.
Quando taceranno le armi, inizieranno le vere trattative, non per i chilometri da spartirsi intorno alle rive del Dnepr-Dnipro, ma per gli autentici “valori tradizionali spirituali e morali”, che la Russia rivendica come propri, ma che in realtà sono comuni a tutti i cristiani e ai seguaci di altre religioni, in Europa e in America, in Russia e in Cina, nel mondo degli esseri umani ad ogni latitudine. E saranno davvero trattative eterne.
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