La transizione economica in Cina: salvata dal baratro da Wto e Onu
Milano (AsiaNews) - Non è stato il mancato sviluppo economico dell'epoca di Mao a spingere la dirigenza comunista verso una forma di transizione economica. La coerenza interna del sistema ne faceva infatti una struttura stabile ed inattaccabile da qualsiasi anche minima dissidenza interna. La struttura economica maoista però comportava un'estrema arretratezza tecnologica e come logico corollario l'inevitabile sua cronica dipendenza dai sovietici. Inoltre la forma burocratico-amministrativa della gestione economica comportava farraginosità e la bassa capacità del sistema di reagire a stimoli esterni. In tal modo era evidente che la Cina stessa aveva una vulnerabilità strutturale rispetto al resto del mondo e per conseguenza l'apparato del regime era esso stesso a rischio.
Le modernizzazioni introdotte da Deng Xiaoping a partire dal 1979 hanno avuto perciò lo scopo primario di tutela del sistema e dl regime, anche perché lui stesso è un comunista convinto e della prima ora. Tali iniziali riforme, le "modernizzazioni" del leader post-maoista, hanno lasciato invariata la compagine sociale, la struttura legale del sistema ed in particolare le forme di gestione e di controllo imprenditoriale delle grandi aziende - le uniche veramente significative. Nei quindici anni successivi il Pil cinese cresce in maniera significativa - sebbene in maniera molto squilibrata, sia geograficamente che socialmente. Il risultato della mancata modifica dei principi giuridici di fondo è stato che i conti delle imprese erano in uno stato di tracollo, ovviamente ben mascherato contabilmente. Per conseguenza erano a rischio non solo i progressi dell'economia ma di tutta la struttura e quindi del regime.
Dopo il crollo del Muro di Berlino ed il collasso dell'Unione Sovietica, diventava poi ancora più che reale il rischio di una gigantesca implosione della Repubblica Popolare Cinese con ripercussioni planetarie. Viceversa, a partire, dal 1994 inizia la fase più impetuosa della crescita cinese, quella del turbo capital-comunismo. Di questa nuova il mondo inizia però ad accorgersi solo a partire dai primi anni del nuovo millennio. All'inizio infatti non è stato chiaro da dove venisse quest'enorme forza propulsiva del gigante cinese che improvvisamente si era risvegliato ed aveva poi iniziato a galoppare. Lo stratagemma in definitiva era semplice ed è stato escogitato nell'ambito del Wto e degli altri organismi internazionali legati all'Onu. Per evitare alla Cina comunista un'implosione come quella dell'Unione Sovietica, uno specifico gruppo di economisti - ad esempio il keynesiano di sinistra James Tobin, quello della Tobin Tax - ed altri intellettuali mondialisti hanno messo a punto un sistema per salvarla. A tal fine essi si sono adoperati affinché il Wto e gli altri organismi economici delle Nazioni Unite concedessero alla Cina quello che in nessun altro caso era stato permesso: il libero accesso ai mercati mondiali, con l'azzeramento delle tariffe doganali - la globalizzazione - senza una preventiva liberalizzazione interna e senza l'abolizione dei sussidi statali palesi ed occulti. Per di più le è stato concesso di accedervi con un tasso di cambio artificiale strutturalmente mantenuto sottovalutato del 45-50 % . Questo straordinario sussidio esterno, a spese dell'industria del resto del mondo, ha prodotto, è ovvio, risultati strabilianti.
Si poteva produrre con costi da economia stalinista e vendere ai prezzi di mercato internazionale e questo ha consentito margini tali da determinare una crescita economica ininterrotta per quasi due decenni a tassi sbalorditivi. Il sussidio invisibile escogitato ha permesso molto altro: l'autofinanziamento per il rinnovo e l'espansione degli impianti di produzione, ad esempio. Il tasso di cambio sussidiato ha consentito anche e soprattutto una serie costante di brillanti utili di gestione di imprese sia statali che private che non necessariamente erano più efficienti. Ha permesso infine anche e di conseguenza uno straordinario accumulo di risorse finanziarie, interne ed esterne. Grazie ad esse il regime poteva poi occultare le grandi magagne del sistema finanziario e bancario cinese. A questo proposito ricordiamo, in particolare, le arbitrarie allocazioni di fondi a progetti cervellotici intrapresi unicamente a fini politici ed in alcuni casi le vere e proprie appropriazioni indebite, vale a dire furti, una realtà sommersa che i tanti scandali di oggi hanno appena fatto affiorare. Tutto questo complesso marchingegno porta dunque ad un risultato anch'esso fuori dal comune: l'evoluzione graduale del sistema dell'imprenditoria cinese da un'economia di comando stalinista ad un sistema che è stato definito turbo-capitalista.
Il meccanismo specifico è stato l'applicazione di un processo di privatizzazione delle imprese che è stato non solo non uniforme ed incompleto, ma lento, altalenante, caso per caso e mirato alle specifiche esigenze contingenti della classe dirigente legata al partito comunista e più in generale al regime. Di fatto, dunque, l'obiettivo, che gli economisti - Tobin ed altri - ed i gruppi di influenza ed orientamento ideologico legati all'Onu si erano posti nel 1994 è stato centrato. La transizione in Cina nel sistema politico e nell'imprenditoria è stata quindi di tipo evolutivo e non un cambiamento di regime e di classe dirigente. I figli della nomenclatura comunista di ieri formano, con pochissime eccezioni, l'aristocrazia industriale e finanziaria cinese di oggi e controllano industrie e banche, che un tempo erano di Stato. Il risultato è paradossale perché è come se l'élite della Germania contemporanea fosse integralmente composta dai figli e nipoti o bisnipoti dei gerarchi nazisti.
Il paragone non paia troppo forte perché non si può considerare lo sterminio di sei milioni di ebrei più grave di quello di 70 o più milioni di cinesi senza cadere in una forma di razzismo inaccettabile.