La repressione non è solo in Tibet, ma in tutta la Cina
di Bernardo Cervellera
Quanto sta accadendo a Lhasa è frutto di una politica nazionale di negazione dei fondamentali diritti umani. La libertà va chiesta anche per i dissidenti democratici e per i credenti, come i tre vescovi da anni “scomparsi” nelle mani della polizia.
Il “viaggio dell’armonia” della torcia olimpica si è trasformato in una ridicola farsa. Le manifestazioni anti-Cina che la rincorrono lungo il percorso, in una specie di gioco a guardia-e-ladri, stanno producendo comunque effetti positivi: finalmente il popolo tibetano, sottoposto a un genocidio culturale e religioso da 50 anni viene messo al centro della preoccupazione dell’opinione pubblica internazionale.
Solo qualche mese fa il Dalai Lama, venuto in Italia, è stato evitato da tutti i politici come un lebbroso, accolto quasi di nascosto da alcuni parlamentari – e da nessuno dei presidenti di Camera e Senato – ora tutti parlano di possibile boicottaggio dei Giochi Olimpici a causa delle violenze dei soldati cinesi contro i monaci tibetani.
A dire il vero, i politici italiani e quelli europei continuano a parlare (forse) di boicottaggio della sola giornata inaugurale e non dei Giochi in toto. Anch’essi, come Jacques Rogge, presidente del Comitato Olimpico internazionale, piangono che i Giochi, questa religione laica del corpo e della potenza, diventino uno strumento politico; anch’essi si dispiacciono che gli atleti rischiano di non avere il loro momento di gloria, dopo anni di preparazione.
È probabile che il pianto nasconda anche la paura di un flop di visitatori, creando imbarazzo non solo agli atleti, ma a tutte le compagnie internazionali che hanno investito sui Giochi, facendo guadagnare alla Cina la gloria, ma all’occidente il denaro. Molte delle opere olimpiche, infatti, sono affidate a ditte occidentali, che a questo punto si attendono un ritorno non solo di immagine.
Il punto è che in ballo non vi è solo il boicottaggio e non vi è solo il Tibet. AsiaNews non è per il boicottaggio dei Giochi olimpici a Pechino. Essere assenti dai Giochi mette solo a posto la propria coscienza o la propria rabbia, ma non cambia nulla sulla situazione dei diritti umani in Cina e in Tibet. Prima, durante e dopo i Giochi Pechino continua la sua politica di negazione di ogni rispetto per la vita della sua popolazione, per chi vuole almeno parlare di democrazia, per chi vuole denunciare l’abissale corruzione in cui nuotano i membri del Partito; per chi vuole vivere la sua fede nella piena libertà religiosa, senza controlli.
La Cina ha ratificato la Convenzione Onu per i diritti umani fin dal marzo 1992. Ma ancora oggi non ha fatto neanche un passo per assimilare questi diritti umani e difenderli nella legislazione del Paese.
È importante costringere la Cina al rispetto dei diritti umani con un continuo dialogo, denuncia e impegno, legando condizioni etiche a tutti i contratti economici che i governi occidentali sono così pronti a difendere.
E non c’è soltanto il Tibet. Diciamo questo non perché non amiamo il popolo tibetano e il Dalai Lama. C’è bisogno di impegnare la Cina sui problemi della Cina e mostrare che quanto accade in Tibet è una conseguenza della repressione che vige anche a Pechino.
Sottolineare solo il problema tibetano sta facendo rinchiudere la Cina e la sua gente a riccio, difendendosi da questo “nuovo attacco delle potenze coloniali”. I giornali e i blog cinesi sono pieni di accuse contro l’occidente, mentre si tende a accusare i tibetani di essere addirittura dei terroristi. Tutto questo spinge la leadership ad aumentare i controlli per la sicurezza, soffocando non solo il Tibet, ma tutti coloro che in Cina propugnano riforme politiche, democrazia, libertà di parola e di associazione, libertà religiosa. I dissidenti democratici che speravano di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale in occasione delle Olimpiadi sono stati incarcerati, posti agli arresti domiciliari, messi al silenzio. Il tema Tibet è usato da Pechino come propellente del patriottismo, per unire i cinesi che, pur scontenti per l’inflazione, la disoccupazione, la violenza, lo schiavismo, la mancanza di libertà, sono ormai messi a tacere pena l’accusa di anti-patriottismo.
A nostro parere una campagna pre-olimpionica deve domandare alla Cina:
1) riaprire il dialogo con il Dalai Lama, che Pechino ha chiuso, rifiutando le richieste di autonomia (e non di indipendenza) culturale e religiosa del Tibet;
2) liberare i dissidenti democratici e non violenti, che sono un punto di riferimento per le riforme politiche di cui la stessa leadership sente il bisogno, ma non ha il coraggio di attuare;
3) liberare le personalità religiose in prigione per la loro fede e invece accusati di essere contro “l’ordine sociale”. Fra questi vogliamo ricordare almeno 3 vescovi cattolici. Due di loro appartengono alla Chiesa non ufficiale (mons. Giacomo Su Zhimin, di Baoding; mons. Cosma Shi Enxiang di Yixian) e uno alla Chiesa ufficiale (mons. Martin Wu Qinjing, di Zhouzhi , Shaanxi), scomparsi nelle mani della polizia rispettivamente da 11 anni, 6 anni e un anno.
Questi passi renderebbero la Cina davvero gloriosa e le Olimpiadi di Pechino una benedizione.
Vedi anche