La questione etnica, bomba ad orologeria che rischia di distruggere la Cina
Washinton (AsiaNews) – Da quando ha preso il potere nel novembre 2012, il Segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping ha cercato di porre il proprio imprimatur sul conteso reame della politica etnica. Come accaduto anche con altre questioni in agenda, Xi ha provato a concentrare il potere sulla sua propria persona: ritiene che questo sia l’unico modo per portare avanti le riforme, contro gli interessi velati dei gruppi di potere, compresi quelli delle relazioni inter-etniche. In effetti la lobby minzu (etnica) è una parte potente e intrecciata in profondità con la macchina politica della Repubblica popolare cinese.
I media di Stato spesso lodano Xi per la sua intima conoscenza e per il personale interesse nei confronti dei circa 120 milioni di cittadini cinesi che fanno parte di una minoranza etnica, e in modo particolare di quelle delle turbolente regioni dello Xinjiang e del Tibet. I suoi viaggi di “ispezione” nelle regioni di minoranza sono notizie da prima pagina, così come i suoi importanti discorsi sul tema del lavoro in campo etnico. Più di recente, la sua immagine e le sue parole sono state rappresentate con molta insistenza durante i festeggiamenti per i 50 anni della Regione autonoma tibetana e per i 60 della Regione autonoma uighura dello Xinjiang (Xinhua, 8 settembre e 1 ottobre).
Eppure, l’intervento di Xi Jinping ha fallito nel mettere termine al dibattito di lunga data e pieno di acrimonia riguardo la futura direzione delle politiche etniche nella Repubblica popolare. A Xi mancano sia l’autorità che il capitale politico per spingere la politica etnica nella direzione che desidera, ovvero una direzione più assimilatrice. Al contrario, egli è ostacolato dall’eredità liberale di suo padre Xi Zhongxun e dalla continua influenza del suo predecessore, l’ex Segretario generale Hu Jintao: due fonti potenti di sostegno per la lobby etnica e per la loro difesa del pluralismo etnico. Tutto questo ha portato a una paralisi politica, che lascia ai funzionari locali il compito di interpretare i messaggi contradditori che arrivano da Pechino. Mentre aumenta l’importanza del lavoro di mantenimento della stabilità come unico metodo su cui tutti convergono per gestire il complesso set di contraddizioni etniche.
Il dibattito sulla politica etnica
Sin dalla creazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, la politica etnica si è mantenuta in uno stato di costante fluttuazione, passando (spesso in maniera drammatica) dalla protezione delle differenze etniche alle tendenze centraliste e integrazioniste. L’improvviso collasso dell’Unione Sovietica, nel 1991, ha fornito un’altra scossa. I nazionalisti hanno messo in guardia dalle politiche liberali introdotte dall’allora Segretario del Partito Hu Yaobang negli anni Ottanta: queste avrebbero posto la Cina in una posizione precaria non così dissimile dall’Unione Sovietica sotto Mikhail Gorbachev.
Il professore dell’Università di Pechino Ma Rong ha per lungo tempo sostenuto che la Cina condivide le stesse pre-condizioni per una frattura nazionale di quelle dell’Unione Sovietica, mentre l’influente docente di politica e professore alla Tsinghua University Hu Angang ha chiesto una “seconda generazione di politiche etniche” alla vigilia dell’elevazione di Xi Jinping al rango di Segretario del Partito (China Brief, 6 luglio 2012). Le attuali politiche, sostengono questi desiderosi riformisti, pongono troppa enfasi sulle identità etniche, mentre creano barriere istituzionali – autonomia amministrativa, classificazione etnica, preferenze basate sull’etnia – che ostacolano la fusione naturale di gruppi differenti e la creazione di una identità nazionale forte e condivisa. In breve: Ma, Hu e gli altri riformisti spingono per una politica che ignori la minzu (la questione etnica) e che arrivi a naturalizzare e persino eliminare quelle politiche che si basano sulla differenza etnica.
Gli oppositori – fra cui il professor Yang Shenming della Minzu University – sostengono invece che ogni ripensamento della teoria e della politica etnica condurrebbe al “caos ideologico” e ad una agitazione politica e sociale (Cuaes, 23 febbraio 2012, Phoenix News, 30 marzo 2014). Aprite la “minzu box”, dicono, e scatenerete un arsenale di contraddizioni simili a quelle del vaso di Pandora che mineranno la cooperazione, la solidarietà e la fiducia basilari per risolvere i problemi sociali in una nazione multi-etnica come quella cinese. La vastità della fazione a sostegno del minzu garantisce un’opposizione rumorosa a ogni cambiamento dello status quo, grazie a una rete complessa di “Commissioni per gli affari etnici e religiosi” che danno lavoro a milioni di funzionari di ogni livello della burocrazia, che a loro volta gestiscono ogni anno la distribuzione di miliardi di dollari di fondi statali.
Ci sono diversi motivi per credere che Xi Jinping sia molto simpatetico con l’agenda integrazionista. Egli ha più volte sottolineato in maniera consistente l’importanza dell’unità nazionale nel contesto del suo “Sogno cinese”, mentre è rimasto il più delle volte in silenzio sul tema dell’autonomia etnica, di linguaggio e di cultura. Ha riportato in vita e promosso le “quattro identificazioni”, che insistono sull’affinità delle minoranze con la madrepatria, sulla razza/nazione cinese, sulla cultura cinese e sulla strada socialista “con caratteristiche cinesi”. Nel frattempo, questa teoria promuove un senso di appartenenza collettiva tramite l’istruzione in lingua mandarina e l’educazione patriottica nelle regioni di frontiera. Xi ha anche ricordato con forza “l’uguaglianza di tutti davanti alla legge” al posto dei diritti differenziati per gruppi etnici che sono contenuti nella Costituzione cinese (People’s Daily, 21 novembre 2014; Xinhua, 28 agosto).
Il controverso tema della “commistione etnica” è ora uno dei “principi guida” del lavoro etnico al tempo del governo di Xi Jinping. Invece di promuovere la diversità etnica, il Partito rilancia l’integrazione residenziale, le scuole in comune per tutti e una maggiore migrazione e mobilità inter-etnica. Il concetto di “commistione etnica” è strettamente collegato con un altro influente riformista nel campo delle politiche etniche, l’ex Direttore esecutivo del Dipartimento per il Fronte unito del lavoro Zhu Weiqun, il quale ritiene che questa commistione sia un trend sociale e storico inevitabile, cui non si può opporre resistenza (China Brief, 19 giugno 2014).
Il fallito intervento di Xi
Durante il Forum centrale per il lavoro etnico, nel settembre 2014, Xi Jinping ha cercato di “consolidare il pensiero” e portare il dibattito sulla politica etnica a una conclusione (China Brief, 7 novembre 2014). Nel suo discorso ha chiesto fiducia per l’attuale approccio del Partito comunista alla questione e ricordato il bisogno di “percorrere in maniera incessante la giusta strada dell’unica soluzione cinese alla questione etnica”. Xi è stato critico nei confronti di chi, come Ma Rong e Hu Angang, lodano i modelli stranieri, come una versione idealizzata del “melting pot” americano. Ha quindi aggiunto in maniera drammatica: “Ci sono persone che dicono che non abbiamo bisogno del sistema dell’autonomia regionale autonoma, e che invece dovremmo applicare lo stesso sistema che abbiamo in altre province. Questa visione è sbagliata e perniciosa dal punto di vista politico. Voglio di nuovo dichiarare con chiarezza a ciascuno che dobbiamo smetterla di sostenere che il sistema dell’autonomia etnica dovrebbe essere abolito!” (China Ethnic Daily, 15 novembre 2014). Di nuovo, nel suo discorso, Xi ha fatto riferimento alle “quattro identificazioni” e alla centralità della commistione etnica, lasciando ben poche speranze a coloro che pensavano che volesse cambiare le politiche etniche verso una nuova direzione.
La mediazione di Xi Jinping ha fatto poco per far finire il dibattito. In realtà, durante la sua leadership, le divisioni all’interno della comunità di coloro che si occupano di etnie sono peggiorate, divenendo più pubbliche e più personali. Entrambi i lati hanno dichiarato vittoria davanti ai media, sottolineando quelle parti del discorso di Xi che andavano a sostegno del proprio punto di vista. Ma Rong, per esempio, ha scritto una lunga analisi con la quale sostiene che il meeting abbia fornito “un importante riaggiustamento” del pensiero, mandando in frantumi la “struttura duale” che divide la società cinese in due metà disuguali: la maggioranza han e le minoranze etniche. In risposta, il suo rivale accademico Hao Shiyuan si è presentato con il suo articolo: questo sostiene che il discorso di Xi abbia riaffermato la centralità dell’autonomia etnica e delle politiche attuali, e che si debba porre fine agli erronei e confusi punti di vista che hanno regnato negli ultimi anni.
Wang Zhengwei, direttore della potente Commissione statale per gli affari etnici (e lui stesso membro della minoranza Hui), ha pubblicato il suo personale riassunto dell’incontro, dichiarando che il discorso di Xi “mette la parola fine” al dibattito sulle politiche etniche (Qiushu, 16 ottobre 2014). Eppure, un mese più tardi, uno dei suoi vice in Commissione – il funzionario tibetano Danzhu’angben – ha fornito estratti ancora più estesi dal testo di Xi, rendendo chiaro che il nuovo boss del Partito favorisce alcuni graduali aggiustamenti a politiche concrete – come la pianificazione familiare e le preferenze nel campo dell’istruzione per le minoranze – così come vuole mettere fine alla creazione di nuovi gruppi etnici e regioni autonome. “Cinquantasei minzu – dice Danzhu’angben citando Xi – sono cinquantasei minzu. Non vogliamo dividere ancora di più” (China Ethnic Daily, 15 novembre 2014).
La continua influenza di Hu Jintao
Nonostante il clamore crescente per la riforma della politica etnica, l’apparato minzu rimane un potente gruppo di interesse con un formidabile alleato: l’ex Segretario generale Hu Jintao. Molti uomini di Hu restano in posizioni chiave di autorità, quando parliamo di etnie, e secondo Willy Lam [analista e grande conoscitore del mondo cinese ndt] la Lega comunista giovanile guidata da Hu “è l’unica cricca nel Partito che può porre qualche tipo di sfida a Xi e ai suoi potenti alleati”.
Nonostante continue voci dicano che un alleato di Xi Jinping sia in pista per rimpiazzare il Segretario del Partito dello Xinjiang Zhang Chunxian, questo rimane al suo posto nonostante le recenti violenze e i presunti legami con l’ex potentissimo capo della sicurezza Zhou Yongkang, ora purgato (Duowei, 27 settembre). Il Tibet è stato per lungo tempo una roccaforte di Hu Jintao, il luogo dove egli è stato Segretario del Partito dal 1988 al 1992. Di fatto, le regioni di frontiera come il Tibet, lo Xinjiang, il Qinghai e l’Inner Mongolia sono state usate come importanti campi di prova per i funzionari della Lega giovanile, fra cui il candidato a rimpiazzare Xi Jinping durante il 20mo Congresso del Partito nel 2022, Hu Chunhua. Questi ha passato quasi 20 anni in Tibet ed è arrivato al rango di vice Segretario del Partito locale dal 2003 al 2006, prima di divenire Segretario della Regione autonomia della Mongolia Interna nel 2009.
Anche le azioni di un altro alleato di Hu Jintao, il direttore della Commissione statale per gli affari etnici Wang Zhengwei, sono in crescita. Nell’aprile del 2015 è stato nominato vice presidente del Dipartimento per il Fronte unito del lavoro. Ora Wang detiene tre posizioni di leadership nazionale: la Conferenza consultiva politica del popolo cinese, la Commissione e il Fronte unito. È fra coloro di cui si prevede l’ingresso nel Politburo durante il 19mo Congresso del Partito, e potrebbe persino arrivare alla guida del Fronte unito (Dagongbao, 15 aprile). Se questo dovesse avvenire, sarebbe il primo leader dai tempi di Li Weihan (1949-1954) a detenere nel contempo le massime cariche relative alle etnie sia nel Partito che nello Stato, e il primo membro di una minoranza a raggiungere questo risultato.
La nuova base di potere istituzionale per i riformatori delle politiche etniche è la molto meno potente Commissione per gli Affari etnici e religiosi della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, di cui Zhu Weiqun è direttore da quando si è ritirato dal Fronte unito. Invece di scivolare all’indietro, Zhu si è fatto sempre più incisivo sulla necessità di una riforma etnica. Nel maggio 2015, ad esempio, un colloquio fra Zhu e lo scrittore tibetano Alai è divenuto virale a causa dell’inusuale critica espressa riguardo l’attuale approccio alla questione (Pheonix News, 31 maggio). Tuttavia egli sarà costretto a ritirarsi durante il 19mo Congresso del Partito e, al momento, non sembra esserci nessuno con abbastanza potere politico da prendere la sua causa dopo la pensione.
L’ombra lunga del padre
Il desiderio di Xi Jinping di rompere con l’attuale politica etnica non è ostacolato soltanto dal suo predecessore, ma anche dall’estesa eredità politica del padre nello stesso campo. L’anziano Xi era noto per essere un esperto delle questioni relative alle minoranze: egli ha servito prima nel nord-ovest durante gli anni Quaranta e Cinquanta, e poi a Pechino come vice premier con la delega per le etnie, le religioni e il Fronte unito durante gli anni Ottanta. Xi Zhongxun ha più volte avvertito il pericolo delle “deviazioni di sinistra” nel lavoro etnico, e ha sottolineato la necessità di una considerazione attenta delle culture, dei linguaggi e delle identità delle minoranze durante l’applicazione delle politiche nazionali. Negli anni Ottanta ha lavorato a stretto contatto con Hu Yaobang per riaggiustare le politiche etniche dopo la Rivoluzione culturale, e questo ha prodotto nel 1984 l’approvazione della Legge sull’autonomia regionale e di una serie di norme a favore delle minoranze contro la quale, oggi, si scagliano i riformatori (Phoenix News, 21 ottobre 2014).
L’anziano Xi era vicino in modo particolare al 10mo Panchen Lama, e si dice che abbia conservato un orologio che gli era stato donato dal 14mo Dalai Lama nel 1954. Dopo l’improvvisa morte del Panchen Lama nel 1989, Xi Zhongxun fece pubblicare un lungo articolo in memoria sul People’s Daily, in cui lodava il patriottismo e la devozione del suo “caro amico” e nel contempo condannava gli errori “di sinistra” compiuti in passato riguardo le politiche sul Tibet. Dopo la morte di Mao Zedong, Xi Zhongxun ha lavorato fianco a fianco del Panchen Lama per attuare una serie di significative riforme politiche in Tibet e in altre regioni etniche, creando l’attuale sistema.
A differenza di suo padre, Xi Jinping ha poca dimestichezza e poca esperienza diretta con le questioni etniche: egli ha passato la sua intera carriera in province costiere come l’Hebei, il Fujian e il Zhejiang. Una sezione da 5mila caratteri del suo libro Casting Off Poverty (pubblicato nel 1992) è considerata il suo primo contributo all’argomento (CPC News, 2 novembre 2014). Di fatto non c’è una singola frase sulla politica etnica nel libro più recente di Xi Jinping, On Governance, che contiene soltanto due vaghi riferimenti in tutto il testo.
In stridente contrasto, il contributo del padre alla questione etnica e religiosa è stato sottolineato negli articoli, libri e persino serie televisive create per commemorare il centenario della sua nascita, nel 2013. “Il lavoro sulle etnie – ha scritto Wang Zhengwei – è stato un filo indissolubile durante la vita del compagno Xi Zhongxun, grazie al quale egli ha fornito un enorme contributo per risolvere il problema etnico del nostro Paese” (China Ethnic Daily, 15 ottobre 2013).
In breve: ogni mossa compiuta da Xi Jinping per diminuire i diritti delle minoranze etniche e la loro autonomia verrebbe vista come un ripudiare in maniera diretta l’eredità di suo padre, come gli viene spesso ricordato da coloro che citano le parole dell’anziano Xi per difendere lo status quo.
Conclusione: la sicurezza regna su tutto
Data la mancanza di un consenso nella leadership centrale, i funzionari locali sono rimasti senza una guida chiara su come bilanciare l’autonomia etnica con la commistione etnica. Incerti su come procedere, la maggior parte di questi funzionari sottolinea l’importanza della stabilità “prima di tutto”, impiegando i loro considerevoli fondi di previdenza sociale e di welfare per inibire le contraddizioni etniche. In realtà, la paralisi politica e i continui disordini etnici lasciano mano libera ai funzionari della sicurezza, mentre non si dà una risposta alle motivazioni che provocano queste tensioni
Come presidente della neonata Commissione per la Sicurezza nazionale, Xi Jinping ha un’influenza notevole sull’agenda della sicurezza, e le forze che la compongono emergono sempre più come una delle sue più importanti basi di potere. Nei discorsi pronunciati finora, Xi ha costantemente sottolineato l’importanza del mantenimento della stabilità, un tema comune negli ultimi due decenni ma che è arrivato a definire l’approccio di Xi ai problemi etnici.
In nome della lotta contro i “tre mali” (separatismo, estremismo e terrorismo), i funzionari della sicurezza hanno presidiato non solo le regioni di frontiera come lo Xinjiang e il Tibet, ma stanno adottando sempre più metodi simili di polizia militarizzata in tutto il Paese. Eppure, la messa in sicurezza della società cinese non riesce ad affrontare una delle questioni fondamentali in gioco nel dibattito politico etnico.
In sintesi, mentre gli apparati di sicurezza si sono dimostrati in gran parte efficaci nel fiutare l’ondata di auto-immolazioni in Tibet e gli attacchi terroristici collegati agli uighuri, l’antagonismo etnico si è affinato in alcune parti della società cinese, in quanto le autorità si sono spinte ancora più in profondità nel monitoraggio ormai onnipresente della società. Senza gli sforzi necessari ad affrontare queste tensioni sempre crescenti, ogni pluralismo stabile e armonioso continuerà a sfuggire dalle mani dei politici cinesi.