10/09/2022, 09.00
MONDO RUSSO
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La pretesa della diversità e la corsa all'imitazione

Senza gli “agenti stranieri” la Russia non sarebbe la Russia, a cominciare dai metropoliti inviati da Costantinopoli a cristianizzare la Rus’ di Kiev. E forse nessun Paese sarebbe veramente se stesso senza l’influsso dei vicini e dei lontani.

La Russia, tra i tanti paradossi della sua storia e della sua natura, ne coltiva uno che risulta particolarmente clamoroso in tempi di catastrofe e conflitto con l’universo intero. Afferma di combattere per difendere la propria identità specifica, diversa da qualunque altro Paese del mondo, e allo stesso tempo si giustifica con le azioni e le caratteristiche degli altri, che renderebbero più pure e credibili quelle simili della stessa Russia.

La principale contraddizione lampante è l’accusa di imperialismo rivolto agli americani e ai loro vassalli europei, che rende necessaria la continua estensione della Grande Russia: era un classico dei tempi sovietici, confortato dalla netta contrapposizione ideologica, ora risulta un paragone decisamente più forzato, basandosi su declamati “valori” morali, pseudo-religiosi e antropologici, che risultano molto più grotteschi della stanca retorica della lotta del comunismo contro il capitalismo, o delle dispute bizantine sui punti e le virgole dei dogmi cristiani.

Il prossimo 13 settembre la Duma di Mosca si riunirà per la prima sessione plenaria autunnale, dopo ferie assai frammentate per i continui richiami dei deputati a votare a scatola chiusa provvedimenti d’emergenza anti-sanzioni. Lo speaker Vjaceslav Volodin proporrà quindi di riassumere in una legge apposita tutte le punizioni e le misure contro la “realizzazione di sanzioni anti-russe”, misura in discussione fin da aprile, e Volodin assicura che i deputati “stanno studiando l’esperienza dei Paesi occidentali” in analoghe situazioni. Lo stesso speaker aveva proposto di guardare agli altri per le “misure palliative” e la “responsabilità dei mezzi d’informazione”, in caso di offesa al potere costituito.

Nel 2019 era stata la sua collega speaker del Consiglio Federale, la fedelissima di Putin Valentina Matveenko, a rimproverare il ministro dell’istruzione Sergej Kravtsov, che era “ossessionato dalle valutazioni internazionali sulla qualità dell’istruzione in Russia”, e insisteva affinché la scuola russa “vivesse del proprio intelletto”. Lo stesso Putin a dicembre del 2021, rispondendo nel dialogo con i cittadini sulla tanta vituperata legge contro gli “agenti stranieri”, affermò che “questa legge non l’abbiamo pensata noi, ma è stata inventata da uno Stato che tutti ritengono il fior fiore della democrazia”, cioè gli Stati Uniti. Spesso Putin e altri si rifanno alla “esperienza internazionale” non meglio precisata, soprattutto per denigrare la democrazia parlamentare e mostrare la superiorità di quella autoritaria e “illiberale”.

Del resto proprio la democrazia è il valore più squalificato dalle “imitazioni” non solo in Russia, che non l’ha mai digerita nella sua storia, ma anche in tanti altri Paesi d’Oriente e d’Occidente, o per averla istituita in circostanze instabili come il crollo dello stesso impero sovietico, o per averla subita come un dono indesiderato o una forma di colonizzazione occidentale, soprattutto in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale.

Proprio la Russia imperiale ha mostrato quanto sia opinabile l’importazione di modelli stranieri, quando Pietro il Grande nel Settecento aprì la Russia all’Occidente, facendosi addirittura illustrare la natura delle nuove istituzioni da uno dei fondatori dell’Illuminismo, il filosofo Gottfried Leibniz. I ministri di Pietro avevano il titolo tedesco di oberprokuror, e perfino la nuova capitale è tornata al nome tedesco di Sankt-Petersburg, dopo aver rigettato il tetro “Leningrad” e il russificato “Pietrograd”, quanto di meno russo in realtà possa suonare alle orecchie. Pietroburgo, anzi “Piter” per i suoi abitanti dal suono olandese della primissima attribuzione, è città massimamente russa proprio in quanto imitazione - in questo caso di grande successo - delle altre capitali europee. Del resto anche il Cremlino moscovita fu costruito dalle maestranze italiane che avevano edificato il Castello Sforzesco di Milano, a cui si era ispirato l’architetto-ingegnere bolognese Aristotele Fioravanti, chiamato dal gran principe Ivan III, nonno del “Terribile”.

 

Senza gli “agenti stranieri” la Russia non sarebbe la Russia, a cominciare dai metropoliti inviati da Costantinopoli a cristianizzare la Rus’ di Kiev. E forse nessun Paese sarebbe veramente se stesso senza l’influsso dei vicini e dei lontani. Gli zar russi inviavano continuamente specialisti, diplomatici e spie nei Paesi che ritenevano più sviluppati, per assorbire da essi il meglio della tecnica, della cultura, dell’arte e delle istituzioni sociali ed economiche. Come peraltro ebbe a dire lo stesso Pietro, “prenderemo il meglio dell’Occidente e poi gli volteremo le terga”, anche se questa profezia si realizzò oltre un secolo dopo, come reazione all’invasione napoleonica.

La guerra in Ucraina e la reazione anti-occidentale segue proprio questo schema: dopo trent’anni di imitazione e assimilazione delle conquiste e del benessere del “nemico storico”, oggi la Russia putiniana “volta le terga” ritenendo di poter fare da sola, e le reciproche minacce degli ultimi giorni, legate al tetto dei prezzi del gas e alla sospensione delle forniture, portano questa contraddizione al suo livello più esasperato.

Se il sistema sovietico poteva almeno vantare le specificità dell’economia collettiva, per quanto difettosa e infine sconfitta dalla storia, quale potrà essere lo spirito autentico della “purezza putiniana”? Al di là delle repressioni e della propaganda, finora l’impressione è solo quella di una generale frenata in tutti i campi dell’economia e della vita sociale, al netto della cocciutaggine nel voler dimostrare con la guerra le proprie ragioni, che non sta facendo guadagnare nulla alla Russia neppure a livello di consenso interno.

Ogni Paese raggiunge degli obiettivi che possono essere utili agli altri. L’Estonia è considerata leader mondiale della digitalizzazione dello Stato, in Gran Bretagna è stato fortemente ridotto il numero dei fumatori, Singapore ha uno dei migliori sistemi sanitari del mondo, l’Austria ha saputo organizzare meglio di altri l’accesso all’edilizia popolare, tanto per citare alcuni esempi. La Russia di Putin ha deciso di prendere come il meglio per sé un’imitazione della legge americana detta “Fara”, Foreign Agents Registration Acts.

Solo che negli Usa tale legge viene applicata a un gruppo limitato di persone, anzitutto ai lobbisti e agli avvocati che rappresentano gli interessi di cittadini e istituzioni straniere; a nessuno verrebbe in mente di citare in giudizio, ad esempio, l’intellettuale di sinistra Noam Chomsky, che è più spesso in consonanza con Putin che con il resto degli americani. In Russia invece si può mandare in galera qualunque cittadino, rendendo l’imitazione americana una variante estrema molto russa e originale, e non certo in positivo. O forse simile allo Zimbabwe, all’Uganda e all’Etiopia, tutti Paesi che hanno da decenni una legge sugli “agenti stranieri”.

Semmai un Paese molto vicino alla Russia, che su questo punto ha fatto a lungo da modello, è stato il Kazakhstan di Nazarbaev, anch’esso in fase di ristrutturazione, dove da tempo si ponevano limiti severi a qualunque sostegno che le associazioni locali potevano ricevere dall’estero, materiale o immateriale. Le varie organizzazioni dovevano presentare resoconti estremamente dettagliati, anche se nella legislazione kazaca non è mai stata inserita la definizione formale di “agente straniero”. Anche il Kirghizistan e il Tagikistan hanno copiato a loro volta dai kazaki, e all’occorrenza oggi guardano all’esperienza russa sia nel bene che nel male, per evitare errori e catastrofi.

Anche l’Occidente farebbe bene a guardare alla Russia con attenzione, non solo per difendersi dalle sue interferenze nella politica interna e dal sostegno più o meno esplicito ai vari partiti e leader sovranisti. L’imitazione degradata, il rifiuto risentito e orgoglioso, la pretesa di superiorità non sono sentimenti che circolano soltanto a Mosca.

A fine Ottocento l’imperatore del Giappone Mitsuhito inviò il proprio braccio destro, il ministro Ivakura Tomori, a guidare una delegazione che studiò per due anni gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e gli altri Paesi europei. Ivakura prese a modello la “grande ambasciata” di Pietro il Grande a fine Seicento, fino a mettere il ritratto dello zar russo accanto a quello dell’imperatore giapponese. A lui interessava non soltanto l’esperienza straniera in quanto tale, ma l’esperienza straniera di assimilazione dell’esperienza straniera.

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