La politica di Trump in Medio Oriente: lotta al terrorismo, ma “business is business”,
La scelta di appoggiare i regimi sunniti e le forniture militari ai sauditi pari a quasi 400 miliardi di dollari. A Riyadh Trump ha evitato ogni riferimento a diritti umani e libertà civili. I primi a fare le spese della disinvolta arrembante politica estera e di sicurezza del Presidente Usa sono i Paesi europei membri della NATO.
Milano (AsiaNews) - Il grand tour tra Medio Oriente ed Europa del Presidente USA si è appena concluso, ed il ciclone Trump è rientrato in patria definendo la sua missione come un successo epocale.
Non è possibile comprendere appieno la strategia della lotta al terrorismo di matrice fondamentalista islamica varata dal Presidente USA a Ryad la settimana scorsa nell’incontro con il sovrano saudita Salman senza leggere con attenzione le tante contraddizioni che in verità hanno caratterizzato i vertici di Trump con i leader arabi ed europei sulla rotta Ryad, Gerusalemme, Roma, Taormina.
Il disinvolto, a tratti brutale pragmatismo del leader USA conferma ancora una volta che “business is business”, e che alla base della strategia di politica estera e di sicurezza americana nella lotta al terrorismo islamista c’è ancora e comunque l’assoluta priorità di stipulare vantaggiosi contratti di enorme portata finanziaria per l’industria bellica e degli armamenti statunitense, ad oggi leader incontrastata sul pianeta in questo settore dell’high technology, uno dei pochissimi mai in crisi, anzi, sempre in crescita.
A Ryad il re saudita ha annunciato davanti ad un compiaciuto Trump la costituzione di un fronte diplomatico e di intelligence tra i Paesi arabi del Golfo con l’intento della lotta al finanziamento dei movimenti terroristici di matrice islamica, e al contempo ha rinnovato la precisa volontà di rafforzare la collaborazione con gli USA su questo fronte ipotizzando la nascita di una futura “NATO” araba in grado di coinvolgere una cinquantina di Paesi. Al contrario, pochi giorni dopo, il vertice di Taormina ha rivelato la profonda crisi che attraversa invece la NATO in quanto i Paesi europei sono assai perplessi di fronte alle richieste imperative di Donald Trump di aumentare le spese economiche per gli armamenti a fronte di una leadership USA sempre più autoritaria e schierata disinvoltamente a favore di una risposta armata ai problemi di geopolitica mondiale e di gestione degli ingenti flussi migratori in cui trova terreno di coltura il radicalismo islamista.
Non è sfuggito agli occhi di nessuno che nel suo discorso davanti al sovrano saudita il Presidente USA abbia espressamente messo da parte ogni riflessione o riferimento alla questione della cooperazione internazionale per la promozione dei diritti umani, delle libertà civili, di società democratiche e pluraliste in Medio Oriente come obiettivi fondamentali per la lotta e la prevenzione del terrorismo, ignorando consapevolmente che l’Arabia Saudita, assieme a parecchi altri Stati partner sunniti, è nella black list dell’ONU per i crimini contro la libertà e più in generale nella violazione dei fondamentali diritti della persona.
Ancora, l’interpretazione estremista radicale wahabita delle fede sunnita dei reali sauditi è sovente alla base della formazione dei movimenti fondamentalisti e terroristici islamici. Essa non diverge particolarmente dalla concezione ideale dello Stato islamico di Daesh; così come ingenti filoni di finanziamento a questi gruppi – dall’ISIS ad Al Qaeda – si collegano indirettamente a realtà istituzionali e di governo saudite.
Ma “business is business”, e Trump ignora deliberatamente che un cammino di pacificazione in Medio Oriente possa realizzarsi stabilmente solo attraverso la condivisione di una piattaforma politica e culturale basata sui principii dell’ONU: centralità dei diritti umani, promozione della democrazia, multilevel-governance, valorizzazione del ruolo della diplomazia rispetto al primato delle armi.
Molto efficacemente l’ex consigliere per la politica estera del presidente Reagan, Elliot Abrams, membro del think tank repubblicano Council for Foreign Relations ha osservato che è inutile lanciare una guerra per l’estirpazione del terrorismo islamista senza prima individuare le ragioni che lo creano all’interno dei Paesi arabi.
Il mastodontico sforzo economico finanziario che gli USA hanno strappato all’Arabia Saudita attraverso la stipulazione di un contratto di forniture militari pari a quasi 400 miliardi di dollari – il più grande accordo nella storia economica USA degli armamenti – è più che sufficiente a garantire faraonici guadagni all’industria bellica americana, a garantire la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro in patria, come promesso da Trump, ma scansa deliberatamente il nocciolo della questione: la risoluzione della guerra interna al mondo politico e culturale islamico in Medio Oriente che da decenni destabilizza l’area. Anzi, la scelta di privilegiare l’alleato saudita complica ulteriormente il quadro geopolitico della regione, perché criminalizza ed isola unilateralmente senza ragione l’Iran, che nella retorica di Trump sarebbe il vero unico ispiratore dell’asse del male terroristico islamico: la radicalizzazione del confronto settario tra credo sciita e sunnita nel Medio Oriente verrà dunque accresciuta consegnando nelle mani della leadership saudita la gestione politico-militare dell’alleanza in Medio Oriente.
Questa strategia geopolitica conferma nei fatti che lo slogan coniato dal Presidente USA in campagna elettorale “America First” , prevede in primo luogo il rafforzamento esclusivo in chiave nazionalista dell’interesse USA, che guarda ad alleanze e partnership con una logica assolutamente strumentale e quindi a geometria variabile, nel solco della dottrina Monroe del primato dell’interesse nazionale.
I primi a fare le spese della disinvolta arrembante politica estera e di sicurezza dell’amministrazione Trump sono i Paesi europei membri della NATO: il Presidente USA considera sempre meno strategica la partnership politico-militare con il Vecchio Continente, ed i leader europei, a cominciare da Angela Merkel hanno manifestato espressamente la loro insofferenza alla strategia geopolitica della leadership di Trump, al punto di affermare espressamente che l’Europa non può più fare affidamento esclusivo sulla alleanza con gli USA, ma deve essere in grado di ridisegnate le proprie scelte politico-militari con indipendenza.