La morte di fr. Jean-Pierre, l'ultimo dei monaci di Tibhirine (VIDEO)
Scomparso a 97 anni l'ultimo sopravvissuto del rapimento e della strage dei trappisti avvenuta nel 1996. Umile e discreto aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita nel monastero di Midelt in Marocco. In una videointervista raccontava: "Restando a Tibhirine non volevamo essere martiri, ma segni di amore e di speranza".
Milano (AsiaNews) - Nel dicembre del 2018 era tornato in Algeria per la beatificazione dei suoi confratelli e degli altri martiri cristiani, uccisi dai terroristi negli anni Novanta. Era la prima volta che faceva rientro in quel Paese, a più di vent’anni di distanza dal rapimento e dal massacro dei sette monaci di Tibhirine avvenuto nel 1996. Ora frère Jean-Pierre Schumacher ha raggiunto i suoi confratelli nella casa del Padre. Se n’è andato domenica 21 novembre, all’età di 97 anni, l’ultimo sopravvissuto di quella strage efferata che aveva lasciato una ferita profonda non solo nella Chiesa d’Algeria, ma anche in quella universale.
Umile e buono, discreto e servizievole, aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita nel monastero trappista di Midelt, in Marocco. Dove, dopo anni di silenzio, lo aveva “investito” l’attenzione del mondo, in occasione dell’uscita dello straordinario film “Uomini di Dio” del registra francese Xavier Beauvois, che aveva riacceso i riflettori sulla presenza silenziosa e orante dei monaci di Tibhirine, una presenza profondamente calata nel contesto sociale e religioso del posto, fino alle estreme conseguenze.
Era stata un’esperienza in un certo senso “catarchica” per frère Jean-Pierre, che solo allora aveva cominciato a raccontare, con quel suo modo piano, senza enfasi e senza rancore, le vicende di quei giorni drammatici in cui la comunità di Tibhirine aveva fatto la scelta di restare, nonostante la minaccia dei terroristi e l’ostilità dell’esercito. «Era la scelta che avevamo fatto insieme - ci raccontava con estrema naturalezza -: restare, nonostante tutto, continuare a essere una comunità di preghiera accanto ai nostri vicini musulmani. Non potevamo partire. La nostra presenza al monastero era un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa ed alla popolazione algerina. Non volevamo essere martiri, piuttosto segni d'amore e di speranza».
Lui quella notte tra il 26 e il 27 marzo era nella sua camera in portineria. Per questo non lo hanno trovato. E con lui si è salvato un altro monaco, frère Amedée, perché i terroristi avevano l’informazione che ci fossero sette fratelli, ma in quei giorni c’erano anche due visitatori, ed erano dunque in nove. I rapitori però se ne sono andati con i primi sette trovati, senza cercare ulteriormente. «Ho sentito dei rumori. Ho pensato che i terroristi fossero venuti per cercare le medicine, come in altre occasioni. Non mi sono mosso finché qualcuno non è venuto a bussare alla mia porta. Ho avuto paura. Ma ho aperto. Era un sacerdote della diocesi di Orano che si trovava al monastero in quei giorni con il gruppo di dialogo islamo-cristiano Ribat el Salaam, il “Legame della pace”. Veniva a dirmi che i miei confratelli erano stati rapiti».
In quel momento, nessuno immaginava che li avrebbero uccisi. In molti pensavano che li avrebbero scambiati con alcuni terroristi fatti prigionieri. La loro uccisione - quella di monaci e dunque di uomini di preghiera cristiani in mezzo ad altri uomini di preghiera musulmani - aveva sconvolto anche parte della società algerina.
Frère Jean-Pierre non aveva mai smesso di interrogarsi: «Se mi fossi accorto che li stavano portando via, sarei rimasto nella mia camera o avrei seguito i miei fratelli?». Ora la sua domanda troverà finalmente risposta.
12/04/2018 11:11