La missione di p. Davide fra i musulmani
di Simone Cantarini
P. Davide Carraro racconta i primi anni di sacerdozio a Touggourt fra i tuareg algerini e lo studio dell’arabo nell’ Egitto della rivoluzione dei Gelsomini. In Paesi dove è vietato il proselitismo occorre testimoniare Cristo con la propria vita e la fede. Sacerdote : “L’unico servizio che ci chiedono i contadini musulmani algerini è pregare, non denaro o cibo”. Il dialogo con l’islam è possibile solo all’interno di un rapporto umano che arricchisce anche la propria vita.
Roma (AsiaNews) - “Diventando amico dei musulmani ho visto che è possibile testimoniare il cristianesimo attraverso la propria vita e non solo con le grandi opere”. E’ quanto afferma ad AsiaNews p. Davide Carraro, giovane missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), dal 2009 al 2011 studente di arabo in Egitto e destinato alla missione Pime nell’oasi di Touggourt (Algeria), dove ha già trascorso i primi anni di sacerdozio. Ritornato in Italia per un breve periodo, il sacerdote racconta i suoi anni in Algeria, dove ai missionari è vietato fare proselitismo, e l’impatto con la rivoluzione egiziana dei Gelsomini.
“La missione Pime di Touggourt – racconta – dista circa 600 km da Algeri e nell’aerea non vi sono cristiani, ma solo musulmani. In un luogo dove per legge è vietato evangelizzare, occorre essere vicini alla popolazione come uomini e sacerdoti, dando importanza ai piccoli colloqui e alla preghiera”. Il sacerdote spiega che gli incontri con i musulmani sono spesso occasionali e legati soprattutto alla vita quotidiana. I frutti della missione si nascondono in questi rapporti: “Senza questa coscienza – afferma - mi sentirei inutile, perché a differenza di altri missioni noi non facciamo opere sociali. Il nostro compito è vivere la nostra fede in silenzio fra la gente”.
P. Carraro racconta che i tuareg, popolazione del deserto algerino, rispettano i sacerdoti: per loro essi sono uomini di Dio, che pregano e lavorano. “Ai miei confratelli – afferma – i contadini del luogo chiedono di pregare per le loro famiglie. Questi incontri avvengono in modo discreto; molti musulmani sono diffidenti e hanno paura di mostrarsi da soli con un sacerdote cristiano. Tuttavia, l’unico servizio che ci domandano è pregare, non pretendono denaro o cibo”. Secondo il sacerdote, ciò che “stupisce queste persone è la nostra presenza in un luogo dove i cristiani non sono benvenuti e non ci sono bisogni particolari da soddisfare”. “In Algeria – sottolinea – non ci sono situazioni di povertà come nelle Filippine.” Ciò costringe noi sacerdoti a vivere la nostra missione, testimoniando Cristo con la nostra vita e la nostra fede”.
Prima di tornare in Algeria, p. Carraro ha trascorso tre anni al Cairo (Egitto) a studiare arabo. “In questo periodo – afferma - ho vissuto in ambienti protetti. Ero straniero, cristiano e prete di rito latino e ciò ha comportato diverse difficoltà, soprattutto per instaurare rapporti con gli egiziani, compresi i cristiani copti, che in maggioranza e per tradizione sono di rito ortodosso; tendono ad isolarsi e hanno pochi contatti con la comunità cattolica latina”. “L’unico luogo in cui ho avuto una certa libertà di incontro e dialogo – continua – è stata la mia classe di arabo, frequentata da soli musulmani. Essere l’unico cristiano della classe mi ha costretto ad abbattere gli schemi culturali, che spesso aumentano il senso di solitudine ed estraneità”. L’amicizia nata con alcuni compagni di studio e professori gli ha fatto comprendere che “un dialogo con l’islam anche su temi religiosi è possibile solo all’interno di un rapporto umano che arricchisce anche la propria vita”.
Il contatto con i musulmani ha permesso a p. Carraro di vivere da vicino la Primavera araba egiziana: “Per me è stato molto importante seguire la rivoluzione dei Gelsomini, un riscatto del popolo egiziano dopo decenni di regime. E’ la fame che ha portato gli egiziani a rivoltarsi e desiderare un cambiamento: lo stipendio medio di un operaio si aggira intorno ai 100 euro, ma un chilo di zucchero costa circa un euro. Ciò che mi ha colpito è stata soprattutto la calma che in quei giorni vi era per le strade vicino al luogo delle manifestazioni. Mi sono recato più volte in piazza Tahrir, ma non ho mai avuto paura; tutti gli egiziani, cristiani e musulmani, erano uniti nel loro desiderio di cambiare il Paese e ho visto coi miei occhi i giovani cristiani proteggere i musulmani durante la preghiera e viceversa”.
P. Davide sottolinea che ora il clima è teso. L’instabilità di questi mesi ha fatto aumentare povertà e corruzione. Il rapporto fra musulmani e cristiani è ancora caratterizzato dall’odio e dalla diffidenza e secondo il missionario non è sufficiente una rivoluzione per estirparli. “La paura – fa notare - è aumentata con la vittoria dei Fratelli musulmani alle elezioni di novembre, che hanno rialzato la testa dopo anni di repressione da parte del regime. Tuttavia i cristiani copti, cattolici, egiziani e stranieri devono sfruttare questo momento per aprirsi e conoscere questi movimenti, che non sono formati solo da estremisti islamici”.
“La missione Pime di Touggourt – racconta – dista circa 600 km da Algeri e nell’aerea non vi sono cristiani, ma solo musulmani. In un luogo dove per legge è vietato evangelizzare, occorre essere vicini alla popolazione come uomini e sacerdoti, dando importanza ai piccoli colloqui e alla preghiera”. Il sacerdote spiega che gli incontri con i musulmani sono spesso occasionali e legati soprattutto alla vita quotidiana. I frutti della missione si nascondono in questi rapporti: “Senza questa coscienza – afferma - mi sentirei inutile, perché a differenza di altri missioni noi non facciamo opere sociali. Il nostro compito è vivere la nostra fede in silenzio fra la gente”.
P. Carraro racconta che i tuareg, popolazione del deserto algerino, rispettano i sacerdoti: per loro essi sono uomini di Dio, che pregano e lavorano. “Ai miei confratelli – afferma – i contadini del luogo chiedono di pregare per le loro famiglie. Questi incontri avvengono in modo discreto; molti musulmani sono diffidenti e hanno paura di mostrarsi da soli con un sacerdote cristiano. Tuttavia, l’unico servizio che ci domandano è pregare, non pretendono denaro o cibo”. Secondo il sacerdote, ciò che “stupisce queste persone è la nostra presenza in un luogo dove i cristiani non sono benvenuti e non ci sono bisogni particolari da soddisfare”. “In Algeria – sottolinea – non ci sono situazioni di povertà come nelle Filippine.” Ciò costringe noi sacerdoti a vivere la nostra missione, testimoniando Cristo con la nostra vita e la nostra fede”.
Prima di tornare in Algeria, p. Carraro ha trascorso tre anni al Cairo (Egitto) a studiare arabo. “In questo periodo – afferma - ho vissuto in ambienti protetti. Ero straniero, cristiano e prete di rito latino e ciò ha comportato diverse difficoltà, soprattutto per instaurare rapporti con gli egiziani, compresi i cristiani copti, che in maggioranza e per tradizione sono di rito ortodosso; tendono ad isolarsi e hanno pochi contatti con la comunità cattolica latina”. “L’unico luogo in cui ho avuto una certa libertà di incontro e dialogo – continua – è stata la mia classe di arabo, frequentata da soli musulmani. Essere l’unico cristiano della classe mi ha costretto ad abbattere gli schemi culturali, che spesso aumentano il senso di solitudine ed estraneità”. L’amicizia nata con alcuni compagni di studio e professori gli ha fatto comprendere che “un dialogo con l’islam anche su temi religiosi è possibile solo all’interno di un rapporto umano che arricchisce anche la propria vita”.
Il contatto con i musulmani ha permesso a p. Carraro di vivere da vicino la Primavera araba egiziana: “Per me è stato molto importante seguire la rivoluzione dei Gelsomini, un riscatto del popolo egiziano dopo decenni di regime. E’ la fame che ha portato gli egiziani a rivoltarsi e desiderare un cambiamento: lo stipendio medio di un operaio si aggira intorno ai 100 euro, ma un chilo di zucchero costa circa un euro. Ciò che mi ha colpito è stata soprattutto la calma che in quei giorni vi era per le strade vicino al luogo delle manifestazioni. Mi sono recato più volte in piazza Tahrir, ma non ho mai avuto paura; tutti gli egiziani, cristiani e musulmani, erano uniti nel loro desiderio di cambiare il Paese e ho visto coi miei occhi i giovani cristiani proteggere i musulmani durante la preghiera e viceversa”.
P. Davide sottolinea che ora il clima è teso. L’instabilità di questi mesi ha fatto aumentare povertà e corruzione. Il rapporto fra musulmani e cristiani è ancora caratterizzato dall’odio e dalla diffidenza e secondo il missionario non è sufficiente una rivoluzione per estirparli. “La paura – fa notare - è aumentata con la vittoria dei Fratelli musulmani alle elezioni di novembre, che hanno rialzato la testa dopo anni di repressione da parte del regime. Tuttavia i cristiani copti, cattolici, egiziani e stranieri devono sfruttare questo momento per aprirsi e conoscere questi movimenti, che non sono formati solo da estremisti islamici”.
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