La guerra fra Israele e Hamas anima il jihad e minaccia la stabilità del Sud-est Asia
Come ai tempi dell’Isis, il conflitto rischia di infiammare le piazze di nazioni a maggioranza musulmana. Con l’eccezione della Thailandia, i Paesi della regione vicini ai palestinesi e a Gaza; migliaia di persone in piazza al grido “Allah Akhbar”. La guerra nella Striscia combattuta su Tik Tok a colpi di fake news e profili contraffatti.
Milano (AsiaNews) - Da Jakarta a Kuala Lumpur, passando per le Filippine e Singapore con la sola eccezione della Thailandia, la guerra lanciata da Israele a Gaza in risposta all’attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre sta animando i popoli del Sud-est asiatico. In particolare nelle nazioni in cui la componente musulmana è maggioritaria e vi sono rapporti consolidati con i vertici politici e militari nella Striscia e, più in generale, vicinanza alla causa palestinese. La regione sta già sperimentando le conseguenze a livello economico, umanitario, politico e in termini di vite umane della nuova escalation in Terra Santa, che rischia di propagarsi all’intero Medio oriente, e oltre. Se a livello di blocco Asean, l’associazione che riunisce 10 nazioni del Sud-est asiatico, non sembrano emergere sinora spaccature, prendendo in esame i singoli Paesi vi sono differenze marcate e ben diverse rischiano di essere le ripercussioni interne. In particolare, laddove agiscono movimenti radicali ed estremisti che in passato hanno già seminato violenze e terrore. Per questo ieri Singapore ha annunciato che mostrare o indossare simboli legati al conflitto fra Israele e Hamas potrà costare il carcere (sei mesi), una multa di 370 dollari Usa o entrambe le pene. Alla base della decisione il fatto che la guerra riveste un elemento “emotivo” che può minare la pace e l’unità della nazione.
La piazza per la causa palestinese
L’ultima manifestazione in ordine di tempo è del fine settimana e si è tenuta in Indonesia, nazione musulmana più popolosa al mondo, dove oltre due milioni di persone si sono ritrovate presso il Monumento nazionale per chiedere la fine dei bombardamenti e l’assedio a Gaza. Fra le nazioni - e i governi - che hanno condannato la controffensiva israeliana a Gaza, definendola sproporzionata per vittime civili vi sono Indonesia e Malaysia. L’Asia ha pagato un notevole tributo in termini di vite umane fra morti, feriti, sequestri: centinaia di migranti economici e lavoratori del Sud-est e del Sud del continente, infatti, sono rimasti coinvolti a vario titolo nell’attacco di Hamas e nella successiva risposta dello Stato ebraico. Tanto che nella votazione tenuta all’assemblea generale Onu il 27 ottobre scorso dei 10 Paesi Asean otto erano favorevoli alla risoluzione per il cessate il fuoco, le Filippine si sono astenute e la Cambogia risultava assente.
Nell’ultimo fine settimana, il venerdì di preghiera islamico è diventato momento di protesta e di espressione di solidarietà a Gaza e ai palestinesi. Un migliaio di persone hanno sfilato per le vie di Kuala Lumpur, chiedendo la fine delle uccisioni; i dimostranti hanno concluso il corteo nei pressi dell’ambasciata statunitense nella capitale malaysiana, contestando la copertura sinora garantita da Washington all’operazione militare. Non sono mancati i canti per la “Morte a Israele, Allah Akhbar” con lo Stato ebraico accusato di aver “sottratto” la terra ai palestinesi, i legittimi abitanti. Scene simili nel sud delle Filippine, zona a maggioranza musulmana nell’unica nazione asiatica a prevalenza cattolica, e in Indonesia dove i manifestanti si sono radunati all’esterno delle moschee per poi unirsi in corteo e dirigersi verso l’ambasciata Usa a Jakarta. Fa eccezione la Thailandia, nazione a maggioranza buddista che vanta una propria rappresentanza diplomatica a Tel Aviv e ha avviato nel tempo un corposo scambio economico e commerciale. Non è un caso che decine degli ostaggi nelle mani di Hamas siano migranti thai, nazione che piange anche 24 morti fra gli oltre 30mila migranti che hanno lasciato la Thailandia in direzione della Terra Santa.
Escalation jihadista nel Sud-est
La guerra di Israele a Gaza, come in passato l’escalation dello Stato islamico in Siria e Iraq nell’estate del 2014, rischia di rilanciare la lotta dei movimenti jihadisti nella regione, soprattutto in Indonesia e Filippine. Esperti sottolineano che lo scenario di miliziani in partenza verso Gaza è minimo, ma vi è una “minaccia” assai più “consistente” circa il “rinvigorimento” delle reti terroriste, nuovi attacchi, radicalizzazione e raccolta fondi per i gruppi militanti. La guerra a Gaza, soprattutto in caso di proseguimento nell’invasione di terra o di un’ulteriore escalation con l’ingresso di Hezbollah dal Libano, servirà da catalizzatore per i gruppi jihadisti alla ricerca di una causa e di un leader carismatico. Il gruppo ombrello pro-Isis Jamaah Ansharut Daulah (Jad) e quello filo-al-Qaeda Jemaah Islamiyah (JI) sono stati entrambi indeboliti da arresti, neutralizzazioni e decapitazioni della leadership. Tuttavia, l’ascesa dell’Isis ne aveva rilanciato la lotta, che aveva trovato nuova linfa nel “califfato islamico” e in una campagna social molto sofisticata.
A ciò si aggiunge il fatto che in Indonesia, Malaysia, Filippine (sud) è diffuso un sentimento di simpatia e vicinanza ai palestinesi e alla loro causa, con un tasso di approvazione sorprendente per lo stesso movimento di Hamas, altrove considerato movimento terrorista. Si teme inoltre che le organizzazioni caritatevoli del Sud-est asiatico vengano utilizzate per sostenere Hamas e altri gruppi militanti, mentre in Indonesia le forze di sicurezza sono già in allerta in vista delle elezioni generali del febbraio 2024. I raduni pro-palestinesi sono un’occasione di reclutamento e indottrinamento per ricostituire i ranghi esauriti di Jad e JI. I funzionari della sicurezza filippini temono inoltre che la guerra rivitalizzi le reti terroristiche a Mindanao e Sulu, grazie a prolungate operazioni militari. Nel triennio 2016-2018, i funzionari di Manila hanno sventato i preparativi di Hamas per attacchi contro obiettivi israeliani ed ebraici e nell’agosto 2017 hanno arrestato un artificiere iracheno che aveva lavorato come “consulente” per Hamas in Siria.
Gaza e fake news: la guerra su Tik Tok
Vi è poi un ultimo fattore ed è quello della guerra combattuta sui social a colpi di profili contraffati e fake news, utili ad alimentare la propaganda di parte. E che, nella regione del Sud-est asiatico, vede prevalere l’uso di Tik Tok, piattaforma di condivisione video made in China che più di altri media ormai superati (Facebook, Twitter o X come è stato ribattezzato e pure Instagram) risulta essere il più usato in questo conflitto di Gaza. A rivelarlo è un approfondimento di Channel NewsAsia (Cna), che ha scoperchiato quello che definisce “un flusso di contenuti fuorvianti” sul conflitto in Medio oriente e che, se lasciato senza controllo, può avere “ripercussioni pericolose” per Indonesia, Malaysia e Singapore. Sebbene il proliferare di notizie false o manipolate in tempo di tensioni geopolitiche non sia un fenomeno nuovo - vedi la guerra russa in Ucraina - quello a Gaza assume contorni ancor più inquietanti per il Sud-est asiatico, amplificando disinformazione, propaganda e derive radicali. Un aspetto rilevante, osserva lo studio, è anche il fatto che sempre più giovani usino la piattaforma per informarsi o conoscere eventi di cronaca e analisi. E se, in un primo momento, i contenuti veicolati sono quelli dei media mainstream, in seguito è un succedersi di profili creati ad arte o legati a individui o gruppi interessati a veicolare una “verità” di parte, che spesso ricorre a filmati del passato o decontestualizzati. Uno dei tanti obiettivi, spiega Cna, è la propaganda a sfondo confessionale per rinvigorire una comune appartenenza islamica. Tuttavia, anche e soprattutto in questo caso - conclude lo studio - la censura o il filtro ai contenuti non serve o comunque non è il mezzo migliore per contrastare le fake news. Al contrario, bisogna puntare su controllo dei fatti, verifica e “prebunking” per garantire informazioni il più possibile accurate.
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31/10/2023 09:48