La fine del putinismo
Quello che rimarrà del regime putiniano dopo questa guerra non ha più grande importanza: ha raggiunto il suo scopo, che non era la conquista di Kiev, ma la disintegrazione dell’odiato ordine mondiale chiamato “globalizzazione”. Ma l’Ucraina segna un punto di non ritorno anche per l’Ortodossia che adesso sarà messa alla prova dall’imposizione militare del dogma putiniano.
Le campane a martello di Kiev hanno suonato, la catastrofe si è riversata sulle terre ucraine, confine tra Oriente e Occidente. I russi hanno invaso l’Ucraina, e stanno davanti alla Grande Porta di Kiev, quella che Modest Musorgskij esaltò nell’800 a conclusione dei “Quadri da un’esposizione” con una musica solenne basata su un inno battesimale, tratto dal repertorio di canti della Chiesa ortodossa russa. È la rinascita della Russia ortodossa, almeno nelle intenzioni dello zar Putin “il Terribile” che aspira alla gloria dei suoi predecessori, dal principe battezzatore Vladimir il Grande a Stalin, il “padre dei popoli” e del Gulag sovietico.
L’ultima scelta
Vladimir Putin si è giocato la sua ultima carta, quella definitiva, per portare a compimento la sua missione storica di ricostruzione della grandezza della Russia, fino alle vette dell’Impero e della Rivoluzione. Dopo aver invaso la Georgia e annesso la Crimea, soccorso i kazaki e protetto gli armeni, spartendosi il Caucaso con la Turchia, litigato con i giapponesi e abbracciato la Cina, a cui ha regalato la Siberia. Dopo aver soffocato i terroristi della Siria e sostenuto i guerriglieri della Libia, affiancato i dittatori dell’Africa e del Venezuela, ripreso la Bielorussia e diviso la Moldavia. Dopo aver ispirato i sovranismi mondiali in Europa, America e Asia, essersi immischiato in tutte le elezioni occidentali con le squadre degli hacker, aver avvelenato le spie passate al nemico e richiuso nei lager tutti i dissidenti. Dopo aver protetto l’Ortodossia e l’Islam dal proselitismo cattolico e protestante, difeso la famiglia da ogni diversità di genere e l’informazione da ogni diversità di notizie e interpretazioni. Alla fine Putin è tornato all’origine, ha chiuso il cerchio della storia, ha esaurito ogni energia politica, militare e ideologica. Dopo 23 anni di potere assoluto, si è stancato di tergiversare, e ha capito di non avere più nulla da perdere. A Kiev si conclude la gloria del putinismo.
I primi due mandati presidenziali di Putin (2000-2008), dopo un anno da premier, furono dedicati a leccare le ferite del post-comunismo e della liberalizzazione selvaggia degli anni di Eltsyn, che già nel 1997 aveva provocato il crollo delle piramidi finanziarie e la svalutazione totale del rublo, da allora rimasta una moneta di legno schiava del dollaro (e quindi dell’euro). Ripagando i debiti grazie al petrolio, la Russia ha conosciuto una nuova fioritura economica nella prima fase putiniana, di cui hanno beneficiato quasi soltanto gli amici e i parenti del presidente, gli “oligarchi” che costituiscono la spina dorsale del regime. Putin cedette la presidenza al fido Dmitrij Medvedev, dileggiato poi dai giovani di Naval’nyj come il “goffo Dimon” che nuota nell’oro. Da premier cominciò a immaginare un piano di restaurazione economica, politica e internazionale che iniziò con la “guerra di prova” in Georgia, limitandosi alle solite due repubblichette separatiste (Abkhazia e Ossezia) senza volersi spingere fino a Tbilisi, la città di Stalin, non abbastanza russa per la gloria.
Da allora il conflitto è andato crescendo di anno in anno, alimentato dal rancore per le truppe della Nato schierate in Polonia e Lituania, i Paesi della competizione storica con la Russia per l’Europa centro-orientale fin dal Medioevo. L’Ucraina ha sempre oscillato tra i due fronti com’è nella sua natura, nel succedersi dei cambi al potere e nelle manifestazioni di piazza del post-comunismo, fino al conflitto finale del Maidan e dell’annessione della Crimea nel 2014, che oggi si conclude a Kiev a prescindere dagli esiti: non c’è altra via da percorrere o altra frontiera da attraversare per la Russia di Putin, comunque vada ha raggiunto il suo confine.
Quello che rimarrà del regime putiniano dopo questa guerra non ha più grande importanza ormai. Lo stesso Putin viene descritto come ossessionato e isolato, rinchiuso da due anni nel bunker anti-pandemico senza più rapporti fisici col mondo esterno, come lo Stalin dell’invasione nazista nella sua piccola stanza senza finestre. Potrà resistere al suo posto per un altro ventennio, imbalsamato come il Brežnev degli anni ’80, o cedere il seggio a un qualunque anonimo delfino, per godersi i miliardi accumulati in qualche castello di quelli denunciati da Naval’nyj. Difficilmente potrà essere scalzato da sconfitte elettorali o sommosse popolari, dopo aver soffocato ogni opposizione; ma se anche succedesse, chi prendesse il potere si troverebbe in mano una Russia isolata e orgogliosa, in guerra con il mondo intero, e non sarebbe facile uscire dal suo enorme guscio.
La fine della globalizzazione
Il putinismo ha infine raggiunto il suo scopo, che non era la conquista dell’Ucraina, ma la disintegrazione dell’odiato ordine mondiale chiamato “globalizzazione”. Nei discorsi bellici di Putin di questi giorni trasuda la rabbia per quella “stolta euforia” che gli americani e l’intero Occidente hanno mostrato alla fine del comunismo sovietico, pensando di poter dominare il mondo intero. E non si può dire che in questo l’invasore russo non tocchi un nervo molto sensibile della comunità internazionale. Fin da quando succedette a Eltsyn, il nuovo zar ha contestato in ogni modo la visione di un mondo senza confini economici, politici e culturali, in cui tutto si mescola e contagia, cancellando le identità dei popoli, delle famiglie, della stessa natura umana secondo i concetti tradizionali.
Alla “pax americana” che pensava di imporre un modello contemporaneo della “pax romana”, la civiltà delle leggi comuni a tutti i popoli, Putin ha contrapposto la bandiera della “pax ruthena”, la traduzione ambivalente del Russkij Mir, parola russa che significa sia mondo che pace. Non l’omologazione universale, ma la difesa delle tradizioni e dei “valori morali”, lasciando a ciascuno i propri. Non a caso l’offensiva ucraina è arrivata nel momento di massima debolezza del nemico americano, “l’impero della menzogna” secondo la definizione putiniana, dopo la vergognosa fuga dall’Afghanistan che ha riportato la storia a prima del 2001, o addirittura a prima del 1979, quando erano stati i sovietici a invadere Kabul.
Ai russi non piace il mondo di internet, invenzione diabolica dei maledetti anni ’90, che permette a tutti di conoscere tutti, senza più conoscere davvero sé stessi. Il mondo di Facebook e Twitter, in cui chiunque si mette in mostra senza ritegno, e la memoria si limita ai pochi secondi del messaggio, senza più lasciare traccia del passato, dei meriti e delle colpe della storia. Putin riporta invece indietro alle offese e alle vittorie, ma non è un ritorno allo stato e all’ordine precedente: è un mondo nuovo, in cui tutto si riconquista da zero, tutto deve essere ridefinito. Pochi veterani ultranovantenni hanno ricordi della Grande guerra patriottica, come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale, e della spartizione del mondo che ne conseguì. Nessuno più comprende la portata delle svolte storiche dei secoli precedenti, tanto che i motivi della Festa dell’Unità nazionale russa del 4 novembre, che rievoca la vittoria sui polacchi del 1612, sono sconosciuti agli stessi cittadini russi, nonostante le vicende di allora spieghino assai bene gli avvenimenti di oggi.
La Russia si difende dall’assalto del mondo ai suoi confini fin dalle sue origini, e molti furono i Putin dei secoli precedenti. Il principe Andrej Bogoljubskij attaccò Kiev nel 1159, trasportando la capitale a Vladimir, da cui nacque poi Mosca, per difendersi da bulgari e peceneghi. Nel 1238 l’altro grande principe Aleksandr Nevskij difese i russi sul Baltico da svedesi e teutonici, per poi accordarsi con i mongoli per salvare la Russia ortodossa. Con i mongoli vinse la prima volta nel 1380 il principe di Mosca Dmitrij Donskoj (del Don – Donbass), le cui armate furono benedette dal santo monaco Sergij di Radonež, il più venerato dalla Chiesa russa. Ivan il Terribile schiacciò nel 1557 i tatari di Kazan e soffocò le rivolte di Novgorod, mentre la dinastia Romanov si affermò all’inizio del ‘600 invocando la Madonna di Kazan contro i nemici, per poi accogliere nel proprio seno i cosacchi “ucraini” che si ribellavano al regno polacco. Pietro il grande costruì il suo impero di San Pietroburgo nel 1709 annichilendo gli svedesi e respingendo i turchi, e la Russia salvò l’Europa intera dalla Grande Armata di Napoleone nel 1812, per giungere infine al trionfo staliniano del 1945 contro l’aggressione di Hitler, che si era preso l’Ucraina.
Sono solo alcuni cenni a una storia di anti-globalizzazione, che rivendica uno Stato unitario che assorbe i popoli minori, ma non si sottomette ai padroni del mondo. È una retorica che giustifica la cosiddetta “ideologia illiberale”: non c’è uguaglianza e livellamento dei valori e dei diritti, ci sono identità forti che hanno la precedenza su quelle più deboli, come la Russia sull’Ucraina, o la Chiesa sull’eresia.
La Chiesa militante
La giustificazione profonda dell’invasione russa non è neppure storica, economica o politica, ma è propriamente religiosa. È la difesa del “mondo ortodosso”, del cristianesimo universale nella sua interpretazione russa, che va perfino al di là di quello della stessa Chiesa ufficiale. La religione di Putin non si limita ai dogmi canonici e alle liturgie pur solenni e scenografiche, come quelle del patriarca Kirill. È una fede che risale alla passione patriottica degli scismatici vecchio-credenti, che nel ‘600 rivendicarono gli usi russi come “più autentici” perfino di quelli greci, a costo di venire cacciati e perseguitati per secoli. È il cristianesimo di Kiev, quello del “popolo nuovo” che deve combattere contro tutti i nemici interni ed esterni, perché ogni altra Chiesa ha fallito, si è persa nell’eresia e nell’immoralità, è stata conquistata dai nemici della vera fede. È la religione insieme pagana e cristiana, la “doppia fede” tipicamente russa che festeggia la Madre Terra insieme al Cristo sofferente e pellegrinante per le steppe innevate.
Il patriarca di Mosca Kirill e i suoi aiutanti (come il metropolita “degli esteri” Ilarion e quello “degli interni” Tikhon, già padre spirituale di Putin) hanno ispirato l’ideologia supernazionalista della sobornost, l’unificazione russa dei popoli secondo i sogni slavofili dell’800. Da quando Putin si è lanciato nella “crociata ortodossa” contro il mondo intero, la stessa Chiesa ortodossa è andata in difficoltà, tanto che il patriarca non riesce a benedire la riconquista dell’Ucraina, per timore di venire a sua volta isolato dall’intero mondo cristiano. Solo i monaci più radicali e i movimenti laicali estremi sostengono la “Chiesa militante”, spesso ritenendo lo stesso Putin troppo moderato, e ora esultano per il ritorno di Kiev alla grande Russia. Non sarà facile accordare l’uso politico-militare della religione con la vera rinascita della fede, che dagli anni ’90 si scontra con la competizione ecclesiastica tra le giurisdizioni e la prevalenza istituzionale sull’autentica spiritualità. L’Ucraina segna un punto di non ritorno anche per l’Ortodossia, che già si è frantumata per l’autocefalia concessa da Costantinopoli, e ora sarà messa alla prova dall’imposizione militare del dogma putiniano.
Uno dei profeti dello slavofilismo ottocentesco era il grande scrittore Fëdor Dostoevskij, che oltre ai famosi romanzi scriveva anche articoli di guerra e di politica, sognando l’affermazione della Russia nel mondo. In uno dei suoi taccuini del 1876, mentre Musorgskij componeva le sue sinfonie, egli scriveva parlando delle guerre di allora, come se stesse anticipando i drammi di oggi:
L'umanità non può vivere senza una grande idea. L'idea che verranno scoperti tali mezzi di distruzione che sarà impossibile fare la guerra. Sciocchezze. In guerra non si odia, bensì si ama addirittura il nemico. Non c'è motivo di odiarlo. Si rispetta il nemico. S'incontrano e fanno amicizia. Non si è affatto assetati di sangue, ma anzitutto si sacrifica il proprio sangue. E così essi sacrificano il loro sangue. Il mondo riprende sempre più a vivere, a vivere più vivacemente dopo una guerra.
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