La comunità dei dissidenti russi a Tokyo
Il Giappone è una delle mete dei relokanty che hanno lasciato la Russia dopo l'invasione dell'Ucraina anche per la presenza di un gruppo di connazionali particolarmente impegnati nell'opposizione a Putin e nelle manifestazioni a favore della pace.
Tokyo (AsiaNews) - Non pochi russi hanno lasciato il Paese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, e una delle possibilità ritenute migliori per trovare un’altra sistemazione è il Giappone, soprattutto per gli abitanti delle regioni orientali della Siberia, per la vicinanza geografica ma anche per la netta posizione di condanna della guerra da parte di Tokyo. La comunità russa in Giappone è infatti particolarmente impegnata nelle manifestazioni a favore della pace, e il sito Ljudi Bajkala ha voluto raccogliere alcune testimonianze in questo contesto.
A dare voce a tanti suoi compatrioti è Nika, una donna proveniente dalla città siberiana di Irkutsk dove aveva studiato nell’unico istituto linguistico di tutto l’Estremo oriente russo, ed è quindi divenuta interprete dal giapponese. Trasferitasi nel Paese del Sol Levante trent’anni fa, con l’inizio del conflitto in Ucraina Nika è stata tra i promotori delle prime azioni pubbliche di condanna alla guerra e al regime di Vladimir Putin, aiutando anche i giornalisti giapponesi a pubblicare documentari e servizi che illustrano le posizioni dei russi qui arrivati come relokanty, ma anche dei non pochi profughi ucraini.
In Giappone Nika aveva ottenuto un dottorato in linguistica, ha sposato un giapponese e insegna la lingua locale ai ragazzi ucraini giunti insieme alle loro famiglie. Ella racconta che “nella tradizione storica giapponese prevale il senso di isolamento dal resto del mondo, e non sono abituati ad accogliere in massa stranieri e profughi”, anche se ai tempi della guerra in Vietnam si aprirono all’arrivo di migliaia di vietnamiti, cambogiani e laotiani che cercavano di sfuggire al regime comunista. Erano chiamati “i boat-people”, che affrontavano la rotta dall’Indocina su fragili imbarcazioni, e ad essi è stata concessa anche la cittadinanza giapponese, che non veniva invece assegnata ai curdi, agli africani o agli iraniani.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i giapponesi hanno dichiarato di essere pronti ad accogliere gli ucraini, e ne sono venuti subito oltre duemila, e vengono sempre specificati come “profughi ucraini”, distinguendoli dagli altri meno accettabili per il Giappone. La maggior parte vive a Tokyo, in appartamenti sociali a loro assegnati, con assistenza medica e linee telefoniche gratuite. I bambini vengono inseriti nelle scuole locali, e Nika si impegna per aiutarli ad adattarsi, non solo linguisticamente; i profughi provenienti da Mariupol soffrono di sindromi post-traumatiche, molti hanno passato giorni nei rifugi sotto i bombardamenti. Vi sono anche quanti sostengono le ragioni della Russia putiniana, rimangono segregati in casa e a volte criticano i giapponesi che li hanno accolti.
Insieme ad altri russi, Nika aveva cominciato a radunare delle manifestazioni di protesta anche prima della guerra, fin da quando venne ingiustamente arrestato il governatore di Khabarovsk, Sergej Furgal, nel 2020, e per sostenere la figura e le azioni di Aleksej Naval’nyj, morto in un lager giusto un anno fa. In queste azioni pubbliche si cerca anche di informare sulla situazione di Hong Kong, che la Cina sta soffocando sotto il suo regime autoritario. La polizia giapponese non proibisce cortei e raduni nelle piazze, ma chiede comunque una certa discrezione, e non ha permesso di depositare fiori in onore di Naval’nyj davanti all’ambasciata russa a Tokyo. I manifestanti volevano far celebrare una panikhida funebre per il politico-martire, ma il sacerdote russo nella capitale si è rifiutato. La stessa Nika, pur essendo non credente, ha quindi condotto il gruppo dei russi nella chiesa ortodossa autonoma giapponese, dove il sacerdote ha chiesto soltanto di non portare giornalisti e non fare foto in chiesa. Tra russi contrari alla guerra e ucraini traumatizzati, i giapponesi cercano di accogliere in un clima di serenità e rispetto reciproco, condizioni molto difficili da provare non solo nelle terre devastate dalla guerra, ma in tanti Paesi del mondo.
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