24/12/2022, 09.15
MONDO RUSSO
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La Russia senza il Christmas

di Stefano Caprio

Nel trentennio post-sovietico il Natale si era sdoppiato, accogliendo il 25 dicembre del calendario gregoriano, senza conflitti con il 7 gennaio di quello giuliano della Chiesa ortodossa. Con la guerra i cristiani tornano a litigare per le date del calendario liturgico. E torna alla mente come il primo scisma nel II secolo fu superato grazie a Ireneo, un santo dell’Asia andato a predicare in Gallia, inaugurando l’incontro delle anime e delle grandi correnti della spiritualità cristiana.

Il Natale del 2022, dopo oltre 300 giorni di guerra in Ucraina, si presenta in Russia con un vestito decisamente dimesso e lacerato, come quello verde sporco del Nonno Gelo (Ded Moroz) di evocazione antico-slava paganeggiante, al posto dello sgargiante Santa Klaus anglosassone, vestito di rosso per grazia di Coca-Cola, e aborrito insieme a tutti i “falsi valori dell’Occidente”. Di sicuro non vi sarà traccia dei presepi latini, se non in qualche angolo delle intimorite parrocchie cattoliche, sparse nel vasto territorio dell’impero in guerra col mondo.

Nel trentennio post-sovietico il Natale si era sdoppiato, accogliendo il 25 dicembre del calendario gregoriano, senza conflitti con il 7 gennaio di quello giuliano della Chiesa ortodossa. Non si trattava di un’apertura ecumenica, ma di un’invasione commerciale, nei tanti e giganteschi outlet aperti a Mosca e nelle principali città, che oggi si presentano quasi deserti per la fuga delle aziende straniere, quando non vengono distrutti dagli incendi che sempre più spesso si ripetono, per scarsa manutenzione o forse per damnatio memoriae. Non c’è più Ikea, Auchan, Carrefour, Obi e Bricofer, non ci sono più i gadget e i tormentoni che da inizio novembre lanciano il business più vacuo e zuccheroso a tutte le latitudini. Il Natale, del resto, è la festa dello scambio di doni e di auguri fin dalla sua istituzione nell’antica Roma imperiale, già in epoca cristiana e con funzioni anche anti-cristiane, poi fatta propria dai cristiani in funzione anti-imperiale.

I cristiani d’Oriente, di Alessandria e Antiochia, nei primi secoli non assunsero subito questa trasformazione, essendo più refrattari alla fusione romano-cristiana, e festeggiavano il Natale al 6 gennaio. Era la festa poi codificata come Epifania, anche se inizialmente era proclamata Teofania, mistero di tutte le manifestazioni divine nell’Incarnazione, nell’Adorazione dei Magi e nel Battesimo di Gesù, l’evento della vera espressione della natura divina di Cristo di fronte alle genti. Queste date si sono riallineate storicamente in modalità diverse, e gli ortodossi hanno ulteriormente complicato il confronto cronologico, rifiutando il calendario papale del 1582. Furono proprio i russi, che proclamarono il patriarcato di Mosca sette anni dopo, a inalberarsi contro il tentativo romano di sottomettere tutto il mondo anche nella numerazione dei giorni, e da allora la distanza è rimasta non solo per il Natale e tutte le feste liturgiche, ma in dimensioni più ampie dello spirito e della coscienza storica. Basti pensare che la “Rivoluzione d’Ottobre” avvenne in realtà il 7 novembre, quando il vecchio calendario scontava il ritardo di quasi due settimane.

I russi usciti dalle nebbie sovietiche, dove si esaltava l’Anno Nuovo senza religione, ma con tanto folclore pagano, si erano piacevolmente adattati a festeggiare il “Christmas” occidentale, chiamato Krizmes alla russa, passando dopo i botti di Capodanno ad attendere il Natale ortodosso del 7 gennaio. Il ballo delle date ha lasciato anche il “Vecchio Anno Nuovo” (Staryj Novyj God) al 14 gennaio, e l’Epifania viene solennizzata al 19. È la festa del Kreščenie, il Battesimo del Signore che in Russia assume l’esperienza di ortodossia “estrema”, immergendosi nel Iordan, l’apertura a croce nei laghi ghiacciati, a ricordo dell’immersione di Cristo nel Giordano. Il presidente Putin è sempre tra i primi a mostrarsi in bermuda a -20 gradi, mentre scende nella sacra piscina dell’identità russa del Grande Gelo Battesimale, i Kreščenskye Morozi che nessun altro popolo è in grado di praticare.

Ora il gelo non è più soltanto la dimensione dell’orgoglio devozionale, ma anche la cifra della condizione drammatica della guerra, voluta dai russi come un’imposizione all’Ucraina e all’intero Occidente. Sul fronte di guerra, a Bakhmut, si festeggia il Natale e il Capodanno negli scantinati e nei rifugi, dove vengono installate le Elke (alberi natalizi) e tutti i simboli cristiani d’Oriente e Occidente, i presepi e le icone. I dirigenti russi augurano a tutto il mondo occidentale di vivere “l’inverno più freddo della storia”, anche se la meteorologia sembra finora schierata dalla parte di Biden e Zelenskyj, che si sono appena scambiati affettuosi auguri con doni di missili Patriot, suscitando ulteriori rancori al Cremlino.

Del resto anche in Russia il gelo scende nelle case, dove manca il riscaldamento per conseguenze sempre legate alla guerra, dalle carenze energetiche all’assenza di tecnici e turni di manutenzione, essendo tutti riservati alle operazioni belliche. Le grandi scenografie del Capodanno di memoria sovietica sono a loro volta dedicate alla retorica del confronto apocalittico con l’Occidente; molti governatori hanno annullato o ridotto le spese per questi giorni, o deciso di devolvere le raccolte di beni e regali dai cittadini ai soldati mobilitati al fronte. Non è prevista alcuna “tregua di Natale” come quella del 1914 tra inglesi e tedeschi nella Prima guerra mondiale, semmai si paventa un “assalto di Natale” per trovare la Vittoria al posto della Teofania, in una sostituzione mistica del Bambino con il Popolo.

Se Giuseppe e Maria si erano spostati a Betlemme per il censimento di Augusto, che intendeva fare del mondo intero un’unica sede di Roma, oggi sono i profughi ucraini e i migranti asiatici e africani a doversi registrare nelle identità del nuovo impero. In Russia il governo ha quindi deciso di imporre a tutti gli ucraini rifugiati o trasferiti a forza di distruggere i propri documenti, sostituendo il Tridente di Kiev con l’Aquila di Mosca. Chi verrà trovato ancora in possesso di carte con simboli ucraini rischia da 8 a 15 anni di reclusione, anche solo conservando le vecchie carte geografiche che mostrano la Crimea come parte dell’Ucraina. Il Popolo santo è uno solo, le identità sono riassunte in quella della Grande Russia, come ai tempi dei Cesari e degli Zar.

L’Aquila bicefala che distingue la bandiera della Russia è infatti un’eredità della Roma imperiale, fatta propria dai russi che sognavano la Terza Roma, ma adottata anche dagli Asburgo, dai serbi, dagli armeni e perfino dagli indiani. Era stato il primo imperatore cristiano, Costantino il Grande, a immaginare l’aquila del potere che guarda a Oriente e Occidente, all’Asia e all’Europa, nella nuova divisione dell’impero dopo la fondazione di Costantinopoli, la Seconda Roma. I principi di Mosca che volevano diventare Cesare la ricevettero in dono da una principessa bizantina, Sofia Paleologa, che a fine Quattrocento era stata inviata a Mosca dal papa Paolo II, con la vana illusione di convertire al cattolicesimo il granduca Ivan III. Da allora la pretesa moscovita di translatio imperii ha conosciuto tante forme, sempre suggellate dall’aquila imperiale, sostituita per qualche decennio dalla bicefalia della falce e martello, simboli della religione comunista e staliniana.

Per queste ragioni l’Ucraina scelse nel 1992, alla proclamazione dell’indipendenza e della prima vera affermazione di una coscienza nazionale, un simbolo che rimarcasse la differente concezione del “mondo russo” in versione occidentale. Lo stemma dell’Ucraina divenne il Trizub, il Tridente attribuito al principe Vladimir, battezzatore della Rus’ di Kiev nel 988, e a tutta la stirpe dei monarchi Rjurikidi, discendenti del mitico variago Rjurik, il vero fondatore delle terre russe. Questa dinastia si esaurì dopo le manie di grandezza di Ivan il terribile a fine Cinquecento, con il regno di Boris Godunov che fece da apripista ai Romanov, gli zar russificatori tanto odiati dagli ucraini e tanto esaltati da Putin. La guerra “dei passaporti” vedrà quindi anche la sostituzione dei simboli, per non lasciare traccia di memorie eretiche e “sataniche”, che offuschino il nuovo culto che “salverà il mondo”.

In Ucraina invece la Chiesa ortodossa autocefala del metropolita Epifanyj ha deciso ufficialmente di lasciare a tutte le comunità locali la scelta della data del Natale, il Rizdvo in lingua ucraina, il 25 dicembre o il 7 gennaio, a seconda delle tradizioni e delle consuetudini, ma anche della sensibilità dei sacerdoti e dei parrocchiani. Era una discussione in atto fin dalla consegna del Tomos di autonomia ecclesiastica da parte del patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, che ha dichiarato a sua volta di essere disposto a concordare il calendario natalizio e pasquale con il papa di Roma, per superare le divisioni del passato.

I cristiani litigano per le date del calendario liturgico fin dai tempi apostolici, e il primo scisma fu superato da sant’Ireneo di Lione nel II secolo, convincendo il papa a non scomunicare chi voleva la Pasqua prima o dopo le date fissate in relazione alle tradizioni ebraiche e giudeo-cristiane. Era un santo dell’Asia che era andato a predicare in Gallia, inaugurando l’incontro delle anime e delle grandi correnti della spiritualità cristiana, riscoprendo il miracolo di un bambino portato a Betlemme dalla Galilea. La Sacra Famiglia viaggiò dalla terra dei pagani a quella della casa di Davide, senza aquile o lance triforcute, riscaldandosi nel gelo grazie al “fiato pagano” dell’asino (simbolo delle genti, secondo Ireneo) e dal “soffio ortodosso” del bue, e Gesù divenne il simbolo incarnato della pace fra tutti i popoli.

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