14/12/2024, 00.23
MONDO RUSSO
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La Russia e la Siria, insieme per sempre

di Stefano Caprio

Il patriarcato di Antiochia è l’unica delle quindici Chiese ortodosse autocefale, e l’unico dei cinque patriarcati antichi, a sostenere da sempre e in ogni situazione la Chiesa russa. Del resto, proprio gli antiocheni furono gli ispiratori dell’istituzione del patriarcato di Mosca. E queste antiche storie del tardo Medioevo ritrovano attualità oggi di fronte al timore dei russi di perdere il proprio ruolo di controllo sul Medio Oriente, dopo la vittoria degli islamisti a Damasco.

Il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) ha fatto sapere di “assistere con ferventi preghiere” il suo amato confratello, il patriarca di Antiochia Ioann X (Yagizi), insieme a tutto il clero e i fedeli della Chiesa che rappresenta l’intero Oriente cristiano. I rappresentanti del patriarcato antiocheno a Mosca, il metropolita Nifon e l’archimandrita Filipp, assicurano una “costante informazione di prima mano” sull’evolversi delle vicende siriane, che tanto interessano e preoccupano la Russia intera. Il presidente Vladimir Putin ha offerto riparo all’ormai ex-dittatore di Damasco, Bashar al Assad, in un lussuoso appartamento nei pressi del Cremlino, e i deputati della Duma di Mosca chiedono di concedergli immediatamente la cittadinanza russa.

Come ha sottolineato il consigliere del patriarca, il protoierej Nikolaj Balašov, “la Chiesa antiochena ha sempre rappresentato il vero spirito patriottico della Siria”, ricordando le parole di Ioann X secondo cui “i cristiani sono i veri abitanti nativi di queste terre, tutti gli altri sono venuti dopo”. Il patriarcato siriano è l’unica delle quindici Chiese ortodosse autocefale, e l’unico dei cinque patriarcati ecumenici antichi, a sostenere da sempre e in ogni situazione la Chiesa moscovita, anche in questa fase di scisma con Costantinopoli e gli altri patriarcati di Alessandria e Gerusalemme, seppure quest’ultimo conservi una posizione abbastanza neutrale. Del resto, proprio gli antiocheni sono stati in passato gli ispiratori dell’istituzione del patriarcato di Mosca.

Nel 1586 era infatti giunto a Mosca l’allora patriarca di Antiochia Ioakimos V, in cerca di aiuti materiali per sopravvivere sotto i turchi ottomani, e fu accolto dallo spregiudicato consigliere dello zar Boris Godunov, con il quale mise a punto il piano che avrebbe realizzato il sogno della “Terza Roma” al suo livello supremo, quello religioso ed ecclesiastico. Ioakimos fu ospitato a Mosca come oggi Assad, e preparò la visita del suo confratello Ieremias II (Tranos), il patriarca di Costantinopoli che giunse a sua volta nella capitale russa nel 1588 a chiedere sostegno. Fu alloggiato nelle stanze più solenni del Cremlino, dove Godunov lo rinchiuse per sette mesi, finchè non accettò di firmare il decreto di istituzione del patriarcato russo, il primo dai tempi antichi ad affiancarsi a quelli apostolici, aprendo la strada a una concezione di “ortodossia nazionale” e patriottica che oggi ritrova il suo fulgore nelle guerre sante di Putin e dei suoi imitatori.

Ieremias venne quindi rilasciato, e di ritorno si fermò presso gli ortodossi russi di Polonia, suggerendo loro di creare un patriarcato di Kiev che facesse da contrappeso alle pretese di Mosca, essendo l’antica capitale della Rus’ la vera fonte del cristianesimo di quelle terre. La fedeltà del re polacco Sigismondo III alla sede cattolica romana, insieme al potente influsso dei gesuiti, trasformò questo progetto nell’Unione di Brest con il Papa del 1596, generando la contrapposizione tra Mosca e Kiev che si è proiettata sulla storia successiva fino ai giorni nostri, tra le due anime del cristianesimo russo, quella orientale e quella occidentale. Nel frattempo, il patriarca di Antiochia e i suoi successori trovavano in Mosca il principale punto di riferimento della loro stessa identità religiosa e nazionale, arrivando nel Seicento a proporre un “papato russo” che offrisse agli antichi patriarchi orientali delle nuove sedi nei dintorni della capitale.

Nell’attuale riscoperta dei propri “valori tradizionali”, queste antiche storie del tardo Medioevo ritrovano attualità di fronte al timore dei russi di perdere il proprio ruolo di controllo sul Medio Oriente, dopo la vittoria degli islamisti contro il regime siriano filo-moscovita. La preoccupazione del patriarca esprime i sentimenti più profondi di tutta la dirigenza politica e militare russa, a cui fa da contrappeso l’esultanza di quella ucraina, che si attribuisce i meriti di aver supportato la rivoluzione islamica, per mettere i russi all’angolo.

I russi avevano schierato le proprie truppe in Siria nel 2015, investendo centinaia di miliardi di rubli, e organizzando le compagnie più aggressive, quelle dei “macellai ceceni” e dei mercenari della compagnia Wagner, guidate dal “cuoco di Putin”, lo scomparso Evgenij Prigožin, che sono poi diventati gli attori principali della guerra russa in Ucraina. In un certo senso, l’appoggio di Mosca a Damasco è stata la palestra di addestramento del ritorno della Russia al ruolo di protagonista della scena geopolitica mondiale. Nel 2016 la Russia ottenne perfino la benedizione di papa Francesco, che incontrando a febbraio il patriarca Kirill all’Avana si accordò per una comune “azione umanitaria” per i cristiani e i profughi siriani, ciò che permise ai russi di ritenersi ufficialmente incaricati di controllare quel territorio, dove lo stesso pontefice romano aveva bloccato l’ingresso degli americani con le veglie di preghiera dell’anno precedente.

Dei cinque patriarcati antichi, oltre Antiochia è solo Roma oggi l’interlocutore di Mosca, in una convergenza di attenzioni all’Oriente ancora in cerca di una vera definizione. Ora è difficile dire se la Russia potrà conservare le sue basi militari in Siria, e la Santa Sede ha fatto sapere attraverso il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, di essere “impressionata per la velocità degli eventi”, augurandosi che ci sia rispetto per le minoranze cristiane e mettendosi in attesa degli sviluppi, una dichiarazione quasi identica a quelle del portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov. Non si tratta del resto soltanto del timore delle scelte del nuovo governo islamista di Damasco: rimanere in Siria può rivelarsi una minaccia per tutti, russi e armeni, cristiani ortodossi, caldei, protestanti e cattolici.

La perdita delle basi russe comporterebbe anche un grave problema logistico per il Cremlino, per i contatti con i propri gruppi in Africa, eredi degli affari della compagnia Wagner, che si appoggiano proprio sulla Siria nel transito mediterraneo. I russi sarebbero costretti ad ampliare le proprie strutture in Libia o in Sudan, ma attualmente questo appare piuttosto complicato, non essendoci relazioni ufficiali con questi Stati, a loro volta in cerca di una stabilità ancora molto indefinita; e le strutture militari russe in Africa non sono abbastanza sviluppate da garantire una difesa soddisfacente degli interessi del Cremlino, come affermano tutti i commentatori. Gli aerei russi diretti in Africa finora si muovevano sul corridoio aereo sopra il mar Caspio, l’Iran e l’Iraq, facendo sosta in Siria per arrivare a Khartum e da qui in tutta l’Africa, e ora non si sa bene come fare.

La Siria è il ponte della Russia per il Mediterraneo e l’Africa, considerando anche la dispersione della flotta del mar Nero in seguito agli attacchi dei droni ucraini, e ora “potrebbero verificarsi nuove rivolte incontrollate anche nei Paesi africani, che i russi faticano a controllare”, secondo il corrispondente di Novaja Gazeta, Denis Korotkov. È difficile oggi calcolare quanti russi siano ancora di stanza in Siria: nel 2018 si parlava di tremila soldati dell’esercito, e duemila mercenari della Wagner, mentre oggi, dopo tre anni di guerra in Ucraina, la stima non supera le mille unità, compresi un centinaio di osservatori sparsi per tutto il Paese. Oltre ai soldati, in tutta la Siria dovrebbero esserci oltre settemila russi, e le strutture militari (e non) sono molto variegate, essendo confuse con quelle statali del regime ormai caduto.

Formalmente la Russia era intervenuta in Siria per combattere contro i fondamentalisti islamici dell’Isis, ciò che permetteva a Mosca di riprendersi una parte del credito internazionale perduto con l’inizio della guerra ibrida in Ucraina nel 2014, sfuggendo allora anche a nuove sanzioni. Molta acqua da allora è passata sotto i ponti: Mosca ha fatto collezione di sanzioni più di qualunque altro Paese al mondo, nella guerra in Ucraina ha coinvolto anche (e soprattutto) i musulmani del Caucaso e della Russia asiatica, esaltandoli come “islam moderato e patriottico”, il volto che oggi si attribuiscono i rappresentanti del gruppo jihadista Hay’at Tahrir ash-Sham, al potere a Damasco, che sono riusciti a fare in una settimana quello che i russi non riescono a fare in Ucraina da tre anni. Putin non si può permettere di buttare via gli sforzi di vent’anni per ridare alla Russia un ruolo strategico nella geopolitica mondiale, per instaurare una “visione multipolare” al posto dell’egemonia occidentale, e quindi cercherà di trovare un modo per rimanere in Siria.

Del resto, la Siria è passata ormai in gran parte sotto il controllo della Turchia, il nemico storico della Russia per il controllo di questi territori, che oggi appare invece come l’unico possibile alleato nella ricerca dei nuovi equilibri tra il “mondo russo” e il “mondo turco”. Lo scopo dichiarato di Erdogan è l’annullamento dell’autonomia dei curdi nella parte nord-orientale della Siria, ma è chiaro che siamo entrati in una nuova fase di suddivisione del dominio sui vasti territori di confine tra l’Oriente e l’Occidente, tra Mosca e Istanbul, come ai tempi della formazione del patriarcato russo, in rapporto a quello antiocheno.

 

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