La Primavera araba e i legami con Israele, la Palestina, la Siria e l'Arabia saudita
Londra (AsiaNews) - Una lettura della Primavera araba a più di un anno dal suo inizio da parte di uno studioso che è consigliere speciale per il Medio Oriente dell'Oxford Research Group, uscita il 29/03/2012 su Open Democracy (trad.italiana a cura di AsiaNews).
A più di un anno dall'inizio delle rivolte arabe - termine più appropriato che Primavera araba, dal mio punto di vista, alla luce delle decine di migliaia di vittime da attribuirgli - molto è stato detto e scritto, ma ci sono, io credo, alcuni pochi punti comuni che sono rilevabili, in contesti che sono inevitabilmente diversi in ogni Paese. Vorrei evidenziarne sei.
In primo luogo sembra che i giovani attivisti che sono stati la prima linea delle diverse ribellioni, con le loro coraggiose domande di democrazia e libertà, non sono per lo più destinati ad esserne i principali beneficiari. Il loro idealismo e il loro entusiasmo sono stati inizialmente contagiosi, ma la loro inesperienza organizzativa e la mancanza di rapporti di base hanno reso possibile a gruppi più radicati e più esperti, in particolare i Fratelli musulmani, di trarre vantaggio dal nuovo clima e avere nuovo potere politico in un Paese arabo dopo l'altro.
Secondo: questo significa che i geni della libertà di espressione, dei diritti fondamentali, della partecipazione popolare e della protesta non violenta, ingrassati dai nuovi media sociali, sono fuggiti dalla bottiglia e nessuna autorità futura, qualunque sia la sua facciata politica, potrà facilmente comprimerli di nuovo. Sotto questo aspetto, nel mondo arabo il vecchio si è già incamminato verso il nuovo, anche se la via da percorrere è ancora lunga e difficile.
Terzo: in conseguenza di ciò, i partiti islamisti, come i Fratelli musulmani sono costretti a stemperare la loro retorica, modificare i loro programmi e cercare alleanze con altre forze all'interno dei loro Paesi. Realisticamente, è del tutto improbabile che la democrazia arrivi nel mondo arabo senza un volto ampiamente islamico.
Quarto: il carattere essenzialmente pacifico della proteste popolari, che hanno spinto la partecipazione di gran parte delle componenti sociali - giovani e anziani, uomini e donne - hanno minato la tesi jihadista che solo i metodi violenti possono provocare cambiamenti e portare i partiti islamici al potere. Questi sviluppi hanno anche gettato discredito sul modello jihadista, gretto, settario e misogino.
Quinto: a differenza delle sollevazioni dell'Europa dell'est del 1989, che in primo luogo miravano a trasformare i loro regimi autoritari in democrazie sul modello dell'Europa occidentale, le rivolte arabe sembrano non avere un modello davvero chiaro da seguire. Se ce n'è uno che appare vicino, è probabilmente quello della Turchia, Paese non arabo.
Sesto: è degno di nota il fatto che, finora, a soffrire il maggior peso delle rivolte non sono state le monarchie conservatrici, ma le repubbliche post-coloniali - in particolare Egitto, Tunisia, Yemen, Libia e Siria- i leader delle quali sembrano aver confuso la loro grandiosamente retorica e gonfiata immagine di se stessi con gli interessi e le necessità dei loro popoli. In tutti questi casi, il potere era sul limite di essere gestito al di sopra e senza un brandello di democrazia, in quanto figlio o altro parente stretto del presidente, o è stato trasmesso in simili modi. L'imminente caso di una voluta successione ereditaria potrebbe essere stato uno degli inneschi delle rivolte nella regione.
D'altro canto, le monarchie più vere di Giordania e Marocco - meno inclini all'illusione di una popolarità universale o di essere il cuore pulsante del nazionalismo arabo - hanno mostrato una maggiore flessibilità quando si sonio minacciate rivolte, appoggiando la prospettiva di cedere maggiore potere ai rispettivi parlamenti. Questo ha aiutato a smorzare le proteste, ma è dubbio quanto ciò sarà sufficiente nel lungo termine.
Le più ricche monarchie del Golfo, al contrario, hanno cercato di controllare potenziali disturbi con un approccio bastone e carota o coopta e contieni. In Arabia saudita, dove l'establishment politico e religioso è istintivamente contrario a significative riforme politiche, il re ha avanzato un massiccio pacchetto di benefici e sussidi. Contemporaneamente, sono state prese misure preventive di sicurezza e sono stati emanati severi avvisi ufficiali contro le manifestazioni di dissenso. Le proteste pubbliche sono state vietate e i leader religiosi hanno emanato fatwa, secondo le quali l'islam proibisce le proteste nel regno saudita, perché qui il re comanda per volontà divina.
Queste misure - in un Paese nel quale le dimostrazioni sono storicamente rare e le donne sono concretamente esclusa dalla partecipazione all'interno della società civile, come è lì - si sono dimostrate efficaci nella maggior parte delle zone. Ma nelle regioni orientali, ricche di petrolio, membri della comunità sciita - stimata essere il 10% della popolazione saudita che lamenta di essere vittima di sistematiche discriminazioni da parte della maggioranza sunnita - sono ripetutamente scesi in strada. A migliaia, secondo Amnesty International, sono stati imprigionati in seguito a processi ingiusti o del tutto senza processo, e ci sono resoconti che parlano di truppe che hanno aperto il fuoco sulla popolazione.
Al momento, con i grandi interessi acquisiti in gioco, non sembrano esserci serie sfide - interne o esterne - alla status quo politico nel Paese-chiave della produzione di petrolio. Quando alla fine ci sarà un cambiamento, probabilmente sarà dovuto al peso delle sue contraddizioni, come l'incapacità di dare un lavoro adeguato per i suoi giovani, formati nelle università, compreso il crescente numero delle donne laureate, in gran parte disoccupate, e la sua innata resistenza alla inevitabile crescita della loro domanda di maggiori libertà e altri cambiamenti politici.
Sospette preoccupazioni saudite
L'innato conservatorismo del governo saudita si estende al di fuori dei suoi confini. In effetti esso si è opposto alle rivolte in quasi tutti i Paesi arabi, con la significativa eccezione della Libia e ora della Siria, sottoposta a una serie di sanzioni su pressione della Lega araba - con il forte sostegno dell'Arabia saudita - apparentemente per la violenta repressine del dissenso interno. Comunque, mentre è commovente l'improvvisa preoccupazione per i diritti umani da parte della dispotica monarchia saudita e delle altre autocrazie arabe, questo solleva più di un piccolo sospetto. Il ruolo decisivo giocato dalle truppe saudite hanno giocato nel prestare aiuto al vicino Bahrein per schiacciare la sua rivoluzione proprio pochi mesi prima, è un motivo sufficiente per non prendere questa spiegazione come un valore di facciata.
Quale è allora la ragione per l'eccezionale sostegno della monarchia saudita alla rivolta in Siria e per il rovesciamento del governo di Assad? Una chiave può essere rappresentata dal fatto che in Bahrein c'è una maggioranza sciita governata da una minoranza sunnita. L'Arabia saudita teme non solo che la rivolta del Bahrein possa minacciare il futuro della monarchia in quelle piccole isole-Stato - che è collegato all'Arabia saudita da una strada rialzata - o che possa estendersi alle province orientali del regno, ma che in agguato nell'ombra ci sia il mortale rivale Iran - l'eretico, radicale potere sciita - pronto a sfruttare ogni opportunità per il proprio vantaggio.
La preoccupazione saudita, e degli altri fratelli sunniti, in un clima di crescenti discorsi confessionali settari, è la crescenteinfluenza iraniana su un arco di terra sul tetto dell'Arabia saudita, che si estende dai confini iraniani attraverso l'Iraq a guida sciita e la Siria a guida alawita - gli Alawi sono una setta sciita - fino al Libano, il governo del quale è dominato dalla milizia sciita di Hezbollah.
Se l'Arabia saudita si è opposta alle rivolte in tutti i Paesi arabi, con l'eccezione di Libia e Siria, l'Iran, al contrario, ha appoggiato ogni rivolta - vedendole come risveglio islamico - tranne che in Siria. Qui ha condannato i manifestanti come terroristi e agitatori. Quale via migliore per rompere l'accerchiamento che rimpiazzare il regime siriano minoritario con un governo della maggioranza sunnita che si unisca al fronte arabo anti-iraniano? La caduta del regime di Assad ridurrebbe l'influenza iraniana nel mondo arabo e riporterebbe l'equilibrio di potere di nuovo verso l'Arabia saudita e i suoi alleati sunniti. Ulteriore benzina è portata alla miscela grazie alla Quinta flotta americana che ha il suo quartier generale in Bahrein, mentre l'unica base navale russa nel Mediterraneo è ospitata dalla Siria. Questi alcuni dei motivi per i quali la situazione in Siria e quella precedente in Libia non sono analoghe e il rimedio usato nel caso libico non può essere semplicemente riproposto alla più complessa realtà siriana.
Israele, l'Iran e la guerra per procura
E' presto per dire come la guerra civile siriana si svilupperà, ma pochi analisti si aspettano che duri ancora a lungo. Comunque, entrambe le parti sembrano determinate a sfidarsi ad oltranza. L'unica certezza, al momento, è che la gloriosa primavera ha preso la strada di un feroce inverno e che, senza qualche tipo di intervento politico esterno, ci saranno molti spargimenti di sangue prima che una parte prevalga definitivamente sull'altra. C'è anche il timore che al-Qaeda cerchi di sfruttare a proprio vantaggio il caos del Paese.
Spetta in primo luogo alla regione trovare una soluzione che comprende un trasferimento di potere attraverso il negoziato a cui una comunità internazionale, attualmente polarizzata può quindi dare il proprio sostegno.
L'altro lato della guerra per procura - l'Iran - è generalmente considerato come un potenziale belligerante guidato da una leadership sgangherata. Il suo obiettivo di acquisire capacità militare nucleare è visto dall'interno di una regione già destabilizzata come profondamente minaccioso e viene collegato all'allargamento di ulteriore proliferazione. Tra gli israeliani, la sensazione più diffusa è che sia mirato alla loro distruzione.
La provocatoria negazione dell'Olocausto da parte del presidente iraniano e le sue fiammeggianti minacce contro lo Stato di Israele hanno tutte alimentato questo timore. Mentre l'ansietà degli israeliani è comprensibile, le minacce del presidente iraniano può essere più di atteggiamento che di sostanza. I palestinesi - che sarebbero vittime di un attacco nucleare contro Israele non meno degli israeliani - non sono per lo più ingannati dal finto sostegno dell'Iran alla loro causa, e allora perché gli israeliani sono così facilmente coinvolti? I due Paesi, lontani migliaia di chilometri, non hanno controversie concrete, su territorio, popolazione o risorse naturali e l'Iran è senza dubbio a conoscenza della notevole superiorità israeliana negli armamenti nucleari.
Ma il pericolo del bluff-e-mutua-paranoia è che se o quando il bluff viene chiamato, potrebbe dar luogo ad una profezia che si autorealizza. Un attacco preventivo israeliano potrebbe innescare un contrattacco sul territorio israeliano e su Israele, l'Occidente e gli interessi allearti in tutto il mondo. Un contro-contrattacco potrebbe essere inevitabile.
Un passo indietro dal baratro, Israele e Palestina
Per rendere possibile alle parti di fare un passo indietro dal baratro, serve un periodo di calma sostanziale. L'inizio potrebbe darlo una chiara affermazione del presidente Obama che l'opzione militare è fuori dalle previsioni fino alle elezioni presidenziali americane di novembre. Questo darebbe almeno qualche mese di respiro e concedere un'opportunità per un atteggiamento più razionale su tutti i fronti.
Quello che verrà dopo le elezioni dipenderà da chi vincerà. Da una parte è dubbio che l'attuale momento storico sia segnato dal ritiro delle forze statunitensi dai disastrosi interventi in Iraq e Afghanistan solo per mandarle subito indietro nella regione per affrontare un ancor più formidabile nemico sotto l'aspetto della Repubblica islamica dell'Iran. Più probabilmente, una rielezione di Obama porterebbe a ingaggiare con forza l'Iran nel confronto diplomatico, piuttosto che sul campo di battaglia. Se, invece, a divenire presidente fosse Romney, aumenterebbe la prospettiva di un attacco militare degli Stati Uniti o di Israele - con tutte le sue devastanti conseguenza, prevedibili e imprevedibili - se le affermazioni della maggior parte dei candidati repubblicani, compreso lo stesso Romney, sono qualcosa da seguire.
E' assolutamente necessario dire che la via migliore per vedere il bluff iraniano e abbassare la temperatura è, per israeliani e palestinesi, risolvere finalmente il loro conflitto. Ma le prospettive sembrano più lontana che mai. L'ostacolo principale al principio dei due Stati - l'unica proposta che ha un senso - è che lo Stato che ha già la sua indipendenza per anni ha sbocconcellato territorio di quello putativo, riducendo pezzetto per pezzetto le dimensioni della torta prima che cominci una qualsiasi contrattazione.
Questa è una strategia davvero miope come è forte negli interessi israeliani garantire che i palestinesi abbiano un genuino interesse per il futuro. Inoltre, non c'è nessuna speranza che Israele sia accettato nella regione fin quando continua la sua occupazione dei territori palestinesi.
E' possibile che siamo sul punto nel quale un accordo pacifico viene indefinitamente sepolto accanto alla pazienza dei palestinesi che è stata duramente messa alla prova, non solo dall'inarrestabile espansione degli insediamenti, ma anche da numerosi infruttuosi anni di negoziati senza scopo e di debole mediazione internazionale.
Ma se la possibilità di uno Stato palestinese accanto ad Israele sta diminuendo è, comunque, l'unica alternativa realistica al conflitto perpetuo in una forma o nell'altra. Perché questo è il caso e perché l'idea di uno Stato unitario, di cui attualmente si vocifera, è una non partenza, è il soggetto dio un'altra volta. Basta dire per ora che finché questo conflitto non sarà chiuso, i suoi veleni rischiano di continuare a versarsi in una regione che, con difficoltà e con battute d'arresto, sta cercando di lanciarsi verso un nuovo futuro.