L’economia mondiale rischia ancora una crisi
Milano (AsiaNews) - Una pioggia di “buone notizie” sull’andamento economico in Asia e negli Stati Uniti sta spingendo molti a dire che “il peggio è passato” e che la crisi mondiale è ormai alle spalle. Oggi stesso la Banca mondiale ha previsto che la Cina crescerà quest’anno dell’8,4%, superando il mitico (e scaramantico) 8% deciso dal premier Wen Jiabao lo scorso marzo. Giorni fa negli Usa si è celebrata la crescita del 3,5%, garantita dal rialzo dei consumi nel terzo trimestre.
In realtà la situazione non sembra granché cambiata. Un’inchiesta pubblicata da Bloomberg il 29 ottobre scorso, mostra che la fiducia degli investitori nell’andamento del mercato è diminuita da luglio ad oggi dal 35 al 31%. Perfino l’aumento del 68% nelle azioni globali, ottenuto negli ultimi 8 mesi, non convince gli investitori e gli analisti. La maggior parte di essi teme che questa crescita economica che si registra qua e là (ma soprattutto in Asia), è più frutto dei pacchetti di aiuto offerti dai governi, che una vera e propria ripresa. Il timore è che l’immissione di migliaia di miliardi di dollari nel mercato (“la maggiore intrusione dei governi nell’economia dai tempi della Seconda guerra mondiale”, come la definisce Bloomberg), lasci in realtà il mondo più indebitato e nella crisi dopo che gli stimoli vengono conclusi. Proprio per questo, Chen Deming, ministro cinese del Commercio, si è affrettato da metter e in guardia il suo Paese e il mondo a ridurre gli stimoli economici, per timore di una nuova grande crisi. Parlando in un forum a Shanghai, Chen ha detto che “vi sono segni crescenti secondo cui l’economia globale si sta muovendo in una direzione positiva, ma vi sono ancora molte incertezze…. [Ma] se le nazioni ritirano lo stimolo ora, l’economia globale affogherà”.
Per l’investitore George Soros è molto probabile che si stia preparando un’altra recessione nel 2010 o 2011. Su questa situazione ecco il commento dell’esperto Maurizio d’Orlando:
Per ora dalla crisi economica sembra ne stia uscendo un po’ meglio la Cina per la ragione che sappiamo: il tasso di cambio dello yuan è da tempo molto sottovalutato rispetto al dollaro. La classe dirigente cinese ha vaste mire di lungo periodo di restaurazione della grandezza nazionale e ne scarica il costo sui lavoratori cinesi e sulla classe media del resto del mondo, con la complicità di una piccola oligarchia occidentale e transnazionale. Questo stesso meccanismo riguarda anche la gran parte degli altri paesi emergenti.
Lo squilibrio generale del sistema globale si scarica così nell’emissione di una valanga di titoli finanziari denominati principalmente in dollari (ma anche in yen ed in misura minore in euro per una serie di ragioni) privi di copertura alcuna il cui effetto momentaneo è di gonfiare i listini di borsa e dare una fittizia impressione di ricchezza patrimoniale. Proprio questa sensazione attenua i sintomi del malessere profondo e procura una sorta di sollievo anti depressivo: in fondo, la gente pensa, la situazione è sì grave, ma poi non così drammatica come si temeva. È come se all’economia americana ed al mondo intero fosse stata data una dose senza precedenti di tachipirina che rimuove i sintomi più immediati ed evidenti ma che ovviamente non cura alcunché. La strategia potrebbe funzionare a due condizioni: che il sistema possa sostenere una degenza abbastanza lunga e che l’organismo riesca a superare la crisi da sé.
In altri termini tutto può procedere in una qualche maniera fintanto che il malessere dei lavoratori cinesi ed in particolare delle classi più spremute non sfocia in insurrezione e fintanto che le classi medie dei paesi occidentali non escono dallo stordimento collettivo – procurato da sesso libero, droga, divertimenti e diversivi di piccolo cabotaggio – che, come un allucinogeno, annebbia il senso dell’abdicazione dalle proprie responsabilità e la consapevolezza del tramonto della democrazia e della perdita propria libertà.
Così com’è il sistema è in un certo senso imballato. Non si può immaginare di elevare il benessere del pianeta senza innovare e solo perché si trasferisce la produzione in aree a basso costo (come la Cina e gli altri paesi emergenti). Né le grandi multinazionali né la Cina sono in grado di produrre innovazioni e scoperte in maniera efficiente: le prime perché le burocrazie interne sono onerose e prive di coerenza innovativa e visione strategica; la Cina perché il suo modello “di successo” è basato sulla contraffazione. Quando e se i due meccanismi placebo di cui sopra dovessero cessare di avere il loro effetto il risultato della mancata cura degli squilibri di fondo sarà una grande conflagrazione.