08/08/2011, 00.00
CINA
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L’Occidente è una colonia della Cina. Ma questa crollerà

di Wei Jingsheng
I comunisti esultano, perché i grandi progressi economici di Pechino costringono Europa e Stati Uniti ad agire come colonie. Ma non capiscono che se non riformano il sistema economico – e soprattutto non inseriscono la democrazia nella politica interna – non riusciranno a evitare gli scontri sociali e il crollo della dittatura monopartitica. L’analisi del grande dissidente.
Washington (AsiaNews) - Il cosiddetto “modello cinese” è stato creato in modo da trattare le nazioni sviluppate come un nuovo tipo di colonie, per usarle come discariche di merci. Questo modo di fare rende estremamente felici moltissimi giovani cinesi arrabbiati e “patriottici”, che dicono: “Arriva la riscossa, siamo finalmente uno Stato sovrano in grado di dominare gli altri come fossero colonie”. Sin dalla nascita del movimento culturale e politico anti-imperialista del 4 maggio 1919, la propaganda degli intellettuali cinesi – che ha distorto la storia e incitato all’odio – avvelena ancora la mente di molte persone. Tuttavia, i sogni di un “paradiso degli idioti” concepito da questi giovani arrabbiati non sono grandi come sembrano.

Anche se le nazioni sviluppate sono divenute discariche [di merci], come lo erano anche le colonie, le nuove nazioni industrializzate emergenti non sono divenuti Stati sovrani, che possano governare su questi Paese in difficoltà. La ragione è che gli stipendi della media della popolazione – in Cina ma anche in altre nazioni emergenti – non si sono alzati in maniera significativa; e il loro mercato interno, le infrastrutture e i livelli tecnologici non si stanno elevando di pari passo. Al contrario, i mercati sono invasi da beni di bassissima qualità. In effetti, i livelli qualitativi stanno declinando in tutto il mondo.

Questa epoca è caratterizzata dal fatto che chiunque può fare molto denaro senza migliorare il campo della scienza e quello della tecnologia. E senza migliorare la qualità. L’unica cosa che si deve fare, però, è mantenere uno standard molto basso nel campo dei diritti umani dei lavoratori: questo basta a compensare i mancati vantaggi di un avanzamento tecnologico. La politica globale, che lavora sotto il controllo dei capitalisti di tutto il mondo, lavora all’unisono per mantenere il “vantaggio” di uno standard dei diritti umani ai minimi livelli. Le popolazioni delle nuove nazioni in via di sviluppo ricevono stipendi inferiori rispetto a quelli che vivono nei mercati “colonizzati”: inoltre subiscono sempre più repressione e sono sfruttati sempre di più. In pratica stanno ancora peggio di chi vive nelle “colonie”: di fatto, sono gli schiavi dei colonizzati.

Ma chi è lo sfruttatore, che ha un diritto sovrano su tutti mercati delle colonie? Il capitale transnazionale. Ad oggi, i capitalisti non si oppongono al Partito comunista cinese (Pcc). Anzi, lo stesso Partito è divenuto capitalista. Il loro slogan oramai è divenuto “Capitalisti di tutto il mondo, unitevi. Così qualcuno potrà vivere una vita prospera”. Tuttavia, le premesse fondamentali per dare prosperità ad alcune persone è che il libero commercio globale sia dominato da condizioni ingiuste. Le fondamenta di questo mercato sono fatte dai diritti umani negati a coloro che vivono e lavorano nelle nazioni industrializzate emergenti, e la sua conseguenza è la recessione economica nelle nazioni sviluppate. Che si avvicinano sempre di più a quelle meno sviluppate. Il metodo con cui si sviluppa non è la ricerca dei capitali, ma una politica controllata che pianifica e organizza i capitali per il proprio scopo: abbassare lo standard dei diritti umani e sostenere un mercato ingiusto. Il libero commercio globale è stato trasformato in uno strumento nelle mani del capitale transnazionale, che in questo modo ottiene profitti eccessivi. Ha perso, insomma, lo scopo che aveva quando venne creato per far ripartire l’economia dopo la Seconda Guerra mondiale.

La variabile più importante in questa trasformazione è stata la creazione del cosiddetto “modello cinese”. Nonostante il nome, il “mercato libero globale” si è deteriorato già in un commercio globale scorretto. Per le nazioni sviluppate, questa scorrettezza si riflette negli standard bassissimi del livello dei diritti umani dei loro competitori. Il sistema politico autoritario garantisce un basso e scorretto costo del lavoro. Accoppiato con delle misure ingiuste di accesso al mercato, produce un’espulsione di fatto dei beni di alta qualità a favore di quelli di bassa qualità. Per le nuove nazioni emergenti la scorrettezza si riflette invece negli stipendi della classe lavoratrice, che non sono sincronizzati con la crescita dello sviluppo economico. Un mercato interno non sviluppato inibisce lo sviluppo economico e il progresso tecnologico e favorisce invece la corruzione della politica. Questo fenomeno si può notare in praticamente tutte le nuove nazioni sviluppate dal punto di vista industriale.

Abbiamo visto come sia le nazioni sviluppate che quelle emergenti siano colpite da questo fenomeno: ma allora questa forma di economia di commercio globale è sostenibile nel lungo periodo? La risposta è no. E questo perché il livello di globale dei consumi è inferiore dell’attuale crescita della produzione. Il tasso di produzione sarà molto difficile da mantenere. La recessione finanziaria indotta da questo surplus è l’inizio e un avvertimento. Se esiste soltanto un surplus finanziario, allora l’inflazione può automaticamente bilanciarlo. Ma la ragione per questo surplus affonda le proprie radici nei profitti eccessivi ricercati dal sistema del commercio globale. Di conseguenza, il mercato non può bilanciarlo. Questo pone un punto di partenza: ma il declino economico continuerà.

In altre parole, la crescita del Prodotto interno lordo non ha portato una crescita conseguente del mercato globale; mentre i profitti eccessivi porteranno ancora una crescita eccessiva nei mercati finanziari. Il tasso dell’inflazione continuerà ad accelerare, ma sarà sempre condannato a cadere dietro il tasso di crescita finanziaria. Da una parte c’è un surplus di beni, dall’altra troppo denaro contante. Entrambi non possono crescere in maniera libera, ma sono nascosti dalle regole del mercato che puntano agli altri profitti e dalle estreme disparità degli stipendi. Questo ostacolo è il motivo per cui si è creata la crisi economica e l’espansione estera negli ultimi secoli. In questa crisi, la situazione attuale della Cina è peggiore di quella di alcune nazioni sviluppate. Il mercato cinese semi-chiuso previene l’aggiustamento automatico del sistema. Questa chiusura continua a favorire le condizioni che portano profitti in eccesso, mentre nel contempo aumenta sempre di più la distanza fra ricchi e poveri e inibisce lo sviluppo dei mercati. Quindi, il tasso di recessione in Cina rimane molto maggiore del resto del mondo.

Dato che il sistema non può aggiustarsi in maniera automatica, e non può neanche bilanciarsi da solo, ogni nazione deve prendere le proprie misure per rimettere in pari le bilance di mercato interne. Il primo passo che gli attuali Stati-colonie devono intraprendere è quello di rafforzare il protezionismo commerciale, per resistere all’invasione di prodotti-spazzatura. Se non riescono a fermare questa invasione – come avvenne nella Cina del 19esimo secolo – subiranno una recessione economica interna: le industrie crolleranno e la disoccupazione inizierà a galoppare. Potrebbe anche verificarsi una sorta di controllo esterno della politica per ragioni economiche. Questo è quanto sta iniziando ad accadere negli Stati Uniti. Quindi, per salvarsi, le nazioni occidentali devono prendere misure protettive per invertire la rotta. La democrazia occidentale si deve scontrare con il capitalismo selvaggio. Costringere la rivalutazione dello yuan cinese è soltanto l’inizio di questo aiuto a se stessi, ma non basta. In questo processo, la Cina sarà inevitabilmente soggetta ad attacchi alle proprie esportazioni. Di sicuro il cosiddetto modello orientale “orientato all’export” non sarà sostenibile. Ecco due possibili opzioni.

La prima è quella di pianificare, andando oltre. La Cina dovrebbe lanciare immediatamente un’espansione del proprio mercato interno, mentre riforma il sistema valutario e le regole del mercato. In questo modo riuscirà abbastanza velocemente a bilanciare il mercato interno grazie a quello internazionale, superando le difficoltà di una recessione economica cooperando con le nazioni sviluppate. Tuttavia, questa opzione impone di rinunciare agli enormi profitti del capitale interno ed estero e alle politiche autoritarie. La difficoltà è che in Cina esiste una dittatura monopartitica sostenuta dai grandi capitalisti, che difficilmente accetterà questo compromesso (a differenza di quanto accade fra politica ed economia nelle nazioni occidentali). Gli interessi nazionali cinesi sono da molto tempo subordinati al capitale, e non esiste alcun procedimento democratico in grado di correggere questo trend.

Quindi al Partito comunista resta soltanto la seconda possibilità: aderire al mercato semi-chiuso e a una politica monetaria chiusa del tutto, facendo un passo alla volta. A parte alcuni piccoli compromessi che vengono accettati sotto costrizione, l’obiettivo ultimo sarà quello di mantenere i profitti eccessivi del “modello Cina” per continuare ad assicurarsi il sostegno del capitale globale. Ma la difficoltà è che questa scelta costringerà l’Occidente a velocizzare il proprio processo di protezionismo e al contempo l’esplosione del conflitto sociale in Cina, che produrrà il crollo del regime comunista. La “Rivoluzione dei gelsomini” nel mondo arabo è stata promossa in questo modo. Tuttavia, la maggiore difficoltà è che il Partito comunista è sotto il controllo dei grandi capitalisti, per i quali è impossibile rinunciare agli enormi profitti e lanciare un vero processo di riforme. Quindi, il capitale e il Partito non possono fare altro che precipitare la Cina nell’abisso. Causando un nuovo round di scossoni economici globali.
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