21/09/2015, 00.00
PAPUA N. GUINEA – AUSTRALIA
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Isola di Manus: processo per assassinio nel centro di detenzione dei profughi rifiutati

Il 17 febbraio 2014, tafferugli fra polizia e migranti hanno portato all’uccisione di un 23enne. Gli accusati sono un membro dell’Esercito della Salvezza (che gestiva il campo) e una guardia. Da quattro anni 1000 migranti sono rinchiusi sull’isola, in attesa di conoscere la loro sorte. Missionario Pime in Papua Nuova Guinea: “Spero che il processo porti alla soluzione di questo dramma”.

Port Moresby (AsiaNews) – Sono iniziate le udienze del processo dei presunti assassini di Reza Barati, il migrante iraniano di 23 anni ucciso nel centro di detenzione sull’isola Manus il 17 febbraio 2014. Gli imputati sono Joshua Kaluvia, membro dell’Esercito della Salvezza (che operava nel campo al tempo dell’omicidio), e Louise Efi, una guardia di sicurezza. Entrambi sono papuani. P. Giorgio Licini, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere in Papua Nuova Guinea, spera che “questo processo possa sbloccare la situazione delle persone rinchiuse sull’isola, che da troppo tempo rimane invariata”. 

Sull’isola di Manus, ormai da quattro anni, sono detenuti in condizioni critiche circa 1000 rifugiati provenienti da Medio Oriente, Africa e Asia, che né l’Australia né la Papua Nuova Guinea hanno accolto entro i propri confini. Nel febbraio 2014, dopo la notizia che era stato loro negato il trasferimento in Australia, i migranti hanno dato vita a proteste violente, che sono sfociate nell’uccisione di Reza Barati.

Parlando ai media, Joshua Kaluvia, ha detto: “Io ed Efi stati accusati solo perché papuani, così nessun australiano verrà ritenuto colpevole dell’omicidio”.

Parlando della condizioni del centro di detenzione, p. Licini spiega che è difficile sapere come stiano le cose perché “il campo è off-limits e ci sono pochissime notizie che giungono dal suo interno. Gli australiani [che gestiscono il campo ndr] tengono tutto molto chiuso”.

“Ai tempi dell’omicidio l’Esercito della Salvezza aveva un contratto di gestione sul campo e della sua vita interna. Dopo l’incidente sono stati sostituiti, come anche la società di sicurezza. Se sono arrivati agli arresti – continua il sacerdote – significa che hanno le testimonianze di altri detenuti e di guardie. C’è da sperare che, se non altro, un processo pubblico porti attenzione sulla situazione, che dovrà essere risolta prima o poi”.

“Sono ormai quattro anni che i rifugiati sono tenuti lì, per volontà dell’Australia che vuole scoraggiare nuovi arrivi – afferma p. Licini –. È come se dicessero: ‘Non venite perché tanto vi mandiamo in Papua Nuova Guinea’. Ma è un’idea fantomatica, perché la Papua non è un Paese sviluppato è non ha gli strumenti per accogliere in modo ordinato tutte queste persone. Perché non si tratta solo dei mille rinchiusi a Manus, ma anche delle loro famiglie, quindi 3-4mila persone. Non c’è lavoro in Papua Nuova Guinea, non è un Paese industrializzato come l’Australia”.

Negli anni scorsi, migliaia di profughi hanno raggiunto l’isola di Christmas, [australiana ma vicinissima alle coste indonesiane ndr] sperando di essere ammessi in Australia. Sono state invece portati in Papua Nuova Guinea, soprattutto sull’isola di Nauru, dove la situazione, dice p. Licini, “è ancora peggiore che a Manus”. “Ma ormai non ci sono più arrivi – afferma il sacerdote –. La politica australiana ha bloccato sul nascere i trafficanti umani. Non mi sento di condannare del tutto l’Australia – conclude il missionario – che comunque accoglie 30mila rifugiati della Nazioni Unite ogni anno”. 

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