Io, cattolico palestinese, a Biden: gli Usa hanno tradito gli ideali di pace e giustizia
In una lettera aperta il professor Bernard Sabella sottolinea le aspettative deluse del suo popolo, mai trattato “in modo equo” dalle varie amministrazioni statunitensi. Negati i valori di “giustizia, democrazia, eguali diritti”. La politica “dei due pesi e delle due misure” di fronte a situazioni di occupazione e conflitto. Nemmeno la Chiesa è immune alle violenze dei coloni.
Gerusalemme (AsiaNews) - I palestinesi aspettano “da sempre” di essere ascoltati “in modo equo” dalle varie amministrazioni Usa, ma hanno ricevuto in risposta solo parole e gesti ben diversi dagli “ideali” promossi dagli Stati Uniti: “Giustizia, democrazia, eguali diritti”. È quanto scrive il professor Bernard Sabella, già rappresentante di Fatah e segretario esecutivo del servizio ai rifugiati palestinesi del Consiglio delle Chiese del Medio oriente, in una lettera aperta affidata ad AsiaNews in occasione della visita del presidente Usa Joe Biden in Israele e Palestina. “A volte, noi palestinesi - osserva - ci chiediamo se gli Stati Uniti applichino due pesi e due misure nei loro rapporti con diversi Paesi, di fronte a situazioni di occupazione e di conflitto. […] e nemmeno la Chiesa e le sue proprietà sono immuni dagli attacchi dei gruppi di coloni, come è successo alla porta di Jaffa con le proprietà appartenenti alla Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme”. Il “minimo” è di “prestare ascolto alle voci dei palestinesi che anelano alla pace e alla giustizia”. Di seguito, il testo completo:
Signor presidente,
Da anziano cattolico palestinese, il mio animo è rattristato.
Sono cresciuto in una famiglia cattolica che ha sperimentato la crisi dei rifugiati palestinesi, conseguenza della guerra arabo-israeliana del 1948. I miei genitori, anch’essi rifugiati, vivevano assieme ai quattro figli in una stanza sovraffollata, ben diversa dalla casa piccola ma indipendente che avevano a Qatamon prima del 1948. Tuttavia, essi hanno insistito perché disponessimo, io e i miei fratelli, della migliore istruzione garantita dalle scuole cattoliche, parte del sistema educativo privato presente prima e dopo il 1948 in Palestina.
Grazie al buon livello di istruzione e all’educazione ricevuta, sono stato in grado di proseguire gli studi universitari negli Stati Uniti, grazie a un programma di sostegno agli studi dell’ambasciata statunitense ad Amman, in Giordania. Questa opportunità mi ha consentito di portare avanti l’eredità dei miei genitori, Zaccaria e Margherita, e di offrire a me, mia moglie Maria e ai nostri figli l’opportunità di una buona educazione qui e all’estero.
Ho insegnato all’università cattolica di Betlemme per un quarto di secolo, e ho potuto apprezzare la dedizione degli studenti palestinesi nel raggiungere un buon livello di istruzione. Il professore che mi ha guidato nel dottorato, il defunto Murray Milner Jr. dell’università della Virginia, originario del Texas, ha visitato il campus dell’università di Betlemme negli anni Ottanta e ha osservato che, ad eccezione del modo in cui i docenti palestinesi erano vestiti, avresti potuto benissimo trovarti in un qualsiasi campus universitario degli Stati Uniti.
Ho lavorato all’interno del Dipartimento per i rifugiati palestinesi del Consiglio delle Chiese del Medio oriente negli ultimi 22 anni. Ho toccato con mano il dolore dei palestinesi e degli altri sfollati e rifugiati in tutto il Medio oriente. Nel mio lavoro a contatto con i rifugiati, alcuni partner fra i più preziosi erano le Chiese degli Stati Uniti, il Global Ministries of the United Methodist Church, la discepoli di Cristo (Chiesa cristiana), la United Church of Christ, la Chiesa presbiteriana e la Chiesa evangelico-luterana, solo per citarne alcune. Queste chiese e i loro membri hanno vissuto il dolore dei palestinesi sin dal 1948 e la loro solidarietà ha sollevato gli spiriti e sanato le ferite dei corpi di migliaia di rifugiati palestinesi nel corso degli anni.
Nel 2006 ho avuto il privilegio di essere eletto membro del Consiglio legislativo palestinese per quanto concerne la quota riservata ai cristiani della città di Gerusalemme.
Eppure, sig. Presidente, nonostante tutti questi risultati conseguiti nella vita e i contributi che l’istruzione degli Stati Uniti e il sostegno della chiesa Usa ci hanno dato, il mio spirito rimane rattristato.
Io e i miei concittadini palestinesi attendiamo e speriamo da sempre di essere ascoltati in modo equo dalle varie amministrazioni di Washington che si sono succedute nel tempo. Siamo stati trattati in modo ingiusto e abbiamo aspettato, guardando agli ideali che la vostra grande nazione da sempre promuove: giustizia, democrazia, eguali diritti. Speravamo che avreste utilizzato questi stessi ideali per far valere i nostri diritti, così troppo a lungo negati.
Siamo abbandonati a noi stessi, senza speranza alcuna di una soluzione equa, giusta e duratura alla nostra situazione, guardando alle politiche statunitensi sul conflitto arabo-israeliano. Strategia e potere, più dei valori di equità e giustizia, sembrano essere fondamentali nel determinare le posizioni politiche. A volte, noi palestinesi ci chiediamo se gli Stati Uniti applichino due pesi e due misure nei loro rapporti con diversi Paesi, di fronte a situazioni di occupazione e di conflitto.
Non nego che le condizioni di vita dei palestinesi e un loro miglioramento siano elementi di preoccupazione, come è stato più volte sottolineato dalle amministrazioni Usa. Ma mi consenta di farle ricordare, signor presidente, un versetto della Bibbia: “Non di solo pane vive l’uomo” (Matteo 4:4).
Lo spirito anela al genere di parole e azioni che servirebbero alle ferite del mio popolo. La continua occupazione israeliana della terra palestinese, l’espansione degli insediamenti illegali, gli scontri militari che divampano a fasi alterne nella Striscia di Gaza, le uccisioni quotidiane di giovani palestinesi, l’espropriazione di vaste distese di terra che spostano migliaia di palestinesi dai loro habitat naturali e le continue intimidazioni e molestie nei confronti di bambini e agricoltori palestinesi da parte dei coloni, protetti dall’esercito israeliano, puntano tutti verso una soluzione senza via di uscita. Nemmeno la Chiesa e le sue proprietà sono immuni dagli attacchi dei gruppi di coloni, come è successo alla porta di Jaffa con le proprietà appartenenti alla Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme.
Signor presidente,
nei giorni scorsi un giovane calciatore palestinese alla tv locale ha detto usando un arabo semplice: “Siamo un popolo che vuole vivere, come qualsiasi altro popolo. Vogliamo divertirci giocando a calcio e sperimentando un po’ di bella vita”. Allo stesso modo, i lavoratori palestinesi che si alzano alle tre del mattino ogni giorno per superare posti di blocco affollati e arrivare al loro lavoro entro le sette, ti risponderebbero che vogliono portare avanti il loro lavoro, perché amano le loro famiglie e desiderano che i loro figli abbiano tutte quelle opportunità che essi stessi non hanno avuto.
Aspiriamo a essere liberi dall’occupazione e essere in grado di vivere come le altre nazioni nel nostro Stato. Abbiamo anche a cuore una visione per Gerusalemme, come hanno affermato i capi delle Chiese in una dichiarazione del novembre 1994: “Invitiamo tutte le parti ad andare oltre ogni prospettiva o azione esclusiva e a considerare, senza discriminazioni, le aspirazioni religiose e nazionali degli altri, in modo da restituire a Gerusalemme il suo vero carattere universale, e di fare della città un luogo santo di riconciliazione per l’intera umanità”.
Con animo e cuore triste, il mio come quello dei miei compatrioti palestinesi, mi rivolgo a voi in occasione di questa visita in corso in questi giorni, e vi ricordo che il minimo che possiate fare è di prestare ascolto alle voci dei palestinesi che anelano alla pace e alla giustizia. Il dolore che sentiamo dentro di noi potrebbe essere guarito solo con un futuro di pace, che possa venire e regnare fra tutti noi in questa terra tanto travagliata.