28/04/2023, 13.45
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Indiani in Africa: dagli Hakki Pikki in Sudan agli investimenti inseguendo Pechino

di Alessandra De Poli

L'Operazione Kaver avviata nei giorni scorsi da New Delhi ha come obiettivo quello di riportare a casa migliaia di concittadini bloccati a Khartoum dopo lo scoppio del conflitto. Molti fanno parte di una tribù che si sposta per vendere all'estero erbe medicinali. Ma negli ultimi anni sono anche cresciuti gli investimenti nel continente, legato all'India da commerci millenari e dal passato coloniale.

Milano (AsiaNews) - A inizio settimana l’India ha lanciato l’Operazione Kaveri per evacuare i concittadini bloccati in Sudan dopo lo scoppio delle ostilità tra il generale Abdel Fattah Burhan, a capo dell’esercito, e il generale Mohammed Dagalo, comandante del gruppo paramilitare RSF. Il processo di evacuazione è iniziato con il trasferimento alla città di Porto Sudan dei primi 500 indiani, di cui una parte sono già atterrati a Gedda, in Arabia Saudita, e saranno rimpatriati a Bengaluru con un volo diretto. 

Prima dello scoppio del conflitto erano circa 4mila gli indiani presenti in Sudan, di cui almeno almeno qualche centinaio appartenenti alla tribù degli Hakki Pikki, un gruppo tribale originario dello Stato indiano meridionale del Karnataka. Molti vivevano a Khartoum, ma la maggior parte risiedevano nella città di Al-Fashir, capoluogo del Darfur settentrionale a 1.000 km dalla capitale, e si erano trasferiti in Africa per vendere i loro prodotti a base di erbe medicinali, molto ricercati soprattutto nelle aree rurali del Paese dove i medici scarseggiano.

È stato grazie ai loro appelli sui social in cui descrivevano la brutalità degli scontri armati che il governo indiano si è mobilitato mettendo in atto un'evacuazione: dopo che un leader del Congress, principale partito all’opposizione, ha twittato una richiesta per garantire il loro sicuro ritorno in India, il ministro degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar, lo ha accusato di “fare politica”. Le elezioni in Karnataka si terranno il mese prossimo.

In base al censimento del 2011 in questo Stato meridionale dell'India vivono circa 12mila Hakki Pikki ma le storie tramandate oralmente narrano che la tribù sia originaria delle regioni nord-occidentali dell’India. Si tratta di un gruppo nomade ed endogamico che viaggiava per tutto il Paese a caccia di uccelli (in kannada, la lingua del Karnataka, il loro nome vuol dire proprio questo: “cacciatori di uccelli”), attività a cui hanno dovuto rinunciare a partire dagli anni ‘70 quando venne vietata dal governo indiano. Marginalizzati in patria dai tempi del colonialismo britannico, durante il quale erano stati classificati come “tribù criminali”, oggi quasi tutti possiedono un passaporto viaggiando dal Sud America al sud-est asiatico per vendere all'estero i loro prodotti naturali, con i quali propongono di curare una varietà di problemi, dai dolori addominali alla caduta dei capelli. Le loro trasferte possono durare poche settimane o diversi mesi: alcuni hanno raccontato che guadagnano dalle 2mila alle 3mila rupie al giorno e poi tornano in India, spesso per evadere gli ordini di spedizioni che continuano ad arrivare dagli altri Paesi.

Dopo una storia coloniale condivisa, i commerci tra il subcontinente indiano e l’Africa hanno ripreso slancio in anni recenti. Nel 2018, rivolgendosi al parlamento dell'Uganda, il primo ministro Narendra Modi aveva delineato quelli che sono ora sono noti come i "Principi di Kampala", una serie di linee guida sull’impegno dell’India in Africa, rivolto a promuovere la crescita economica e ad affrontare problemi comuni come il terrorismo e il cambiamento climatico. Dal 2005 al 2015 il valore dei commerci bilaterali è cresciuto ogni anno di circa il 35%, mentre il 99% di tutti gli investimenti africani in India provengono dalle Mauritius, una piccola isola nell’Oceano indiano dove oltre il 60% della popolazione è di origine indiana. L'isola, avendo scalzato Singapore, oggi funge da polo per gli investimenti indiani che - inseguendo Pechino - hanno raggiunto la cifra di circa 74 miliardi di dollari. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri Jaishankar, il commercio bilaterale tra India e Africa “ha raggiunto gli 89,5 miliardi di dollari nel 2021-2022 rispetto ai 56 miliardi di dollari dell'anno precedente”, un risultato reso possibile soprattutto grazie all’esportazione di prodotti farmaceutici e prodotti petroliferi raffinati. 

La Cina resta il principale partner economico del continente grazie a un commercio bilaterale che nel 2021 ammontava a 254 miliardi di dollari, ma l’India da parte sua può sfruttare una diaspora di 3 milioni di individui, di cui più di un terzo in Sudafrica, mentre dopo le Mauritius la maggior parte si trova a Reunion (220mila), Kenya (100mila), Tanzania (100mila) e Uganda (90mila). La loro presenza in Africa è legata a ragioni storiche e ha sempre a che fare con gli affari.

Già nel XII secolo il cartografo arabo Muhammad al-Idrisi diceva di aver trovato in Mozambico resti di insediamenti indiani probabilmente risalenti al primo millennio d.C. Durante il XIX secolo, almeno 32mila indiani vennero trasferiti nel continente nero per lavorare nei territori delle colonie inglesi (spesso come costruttori di ferrovie), ma una volta terminato il contratto almeno 7mila decisero di restare occupando per primi le nuove aree coloniali in qualità di commercianti e prendendo il nome di “dukawalla”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale il numero di indiani nella regione dei Grandi Laghi era salito a 320mila e alcuni Stati africani avevano imposto restrizioni all’afflusso di stranieri. Si stima che tra l’80% e il 90% delle rotte commerciali in Kenya fossero sotto il controllo degli indiani, mentre in Uganda possedevano quasi tutte le sgranatrici di cotone. Nel 1972 gli indiani-ugandesi (chiamati anche “wahindi” in swahili), che allora costituivano circa il 2% della popolazione, vennero espulsi e le loro attività “africanizzate”. Solo un decennio dopo fu permesso loro di tornare e molti ora sono di nuovo a capo di fiorenti attività commerciali.

 

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