India, Corte Suprema: prendere a calci la moglie non è atto di “crudeltà”
di Nirmala Carvalho
Secondo la sentenza il marito e parenti non vanno incriminati per maltrattamento. Parlamentare indiana chiede l’intervento del Ministero della giustizia. Attivista bolla la decisione come “un’offesa per l’umanità intera” e punta il dito contro la società “patriarcale” che legittima le violenze.
New Delhi (AsiaNews) – In India il mondo femminile è in rivolta contro una recente decisione della Corte Suprema, secondo cui “prendere a calci la nuora non è un atto di crudeltà”. Le donne bollano la sentenza come “retrograda” e chiedono l’intervento del Ministero della giustizia.
La controversia nasce da una causa familiare fra una donna e il marito, che vive in Sudafrica. Il massimo organismo giudiziario indiano ha sancito che l’uomo e i parenti di lui non possono essere incriminati per “crudeltà” verso la moglie, solo perché la suocera o altri componenti del gruppo familiare l’hanno presa a calci o minacciata di divorzio.
Un ramo della Corte Suprema, presieduto dal Giudice capo S.B. Sinha, spiega che possono essere formulati altri capi di imputazione, ma non la Sezione 498A del Codice penale indiano, che punisce il maltrattamento del marito – o parenti di lui – verso la donna. Brinda Karat, figura di spicco del Partito comunista indiano di ispirazione marxista, ha inviato una lettera a Veerappa Moily, Ministro della giustizia, chiedendo una revisione del processo perché esso costituisce il viatico “per legalizzare le violenze domestiche”.
George Julia, avvocato e attivista di Stree Vani – “Voce delle donne”, associazione con base a Pune, nel Maharashtra – definisce la vicenda “non un’offesa solo verso le donne, ma per tutta l’umanità”. “Già l’atto in sé di prendere a calci – spiega ad AsiaNews la donna – è disumano. È penoso che, ancora oggi, vi siano onorevoli esponenti del sistema giudiziario che hanno questa posizione”.
Il legale sottolinea che la questione nasce all’interno delle famiglie, dove le donne sono “picchiate a morte non solo dal marito, ma anche dai parenti di lui”. “La questione – continua Julia – supera i confini delle classi sociali, dell’istruzione, della ricchezza”. Essa è da imputare alla logica “patriarcale” tipica della società indiana, che “spinge le donne ad accettare l’oppressione di genere”. Nella cultura tradizionale indiana, l'essere donna ha aspetti di "sfortuna". Essa, sposandosi, viene ad appartenere alla famiglia del marito, ma la famiglia di lei deve pagare a quella di lui una dote perchè essa venga presa in moglie. Questa situazione porta a umiliazioni, violenze e pretese da parte della famiglia di lui, soprattutto se la dote non è stata versata in modo completo o è giudicata insufficiente.
L’attivista riferisce che nel corso della sua attività professionale nel Maharashtra è stata testimone di numerosi casi di violenza domestica, fisica e mentale. Per questo è essenziale rafforzare “l’educazione”, ma essa “non deve venire da un lato solo: assieme alle donne, anche gli uomini vanno educati e sensibilizzati”.
“Le donne – conclude George Julia – devono fronteggiare ostacoli e difficoltà tremende anche solo per poter denunciare i casi di abusi. Gli stessi ufficiali di polizia sono restii ad aprire un fascicolo di inchiesta per maltrattamenti domestici. Le leggi sono il pilastro della Costituzione indiana; ciò che facciamo è invitare le donne che subiscono violenze a denunciare e assisterle”.
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