In India ‘non esiste il mito dell’apertura al mercato che risolve la povertà’
Ambrogio Bongiovanni è docente di dialogo interreligioso all’Università Urbaniana e di teologia della missione alla sezione S. Luigi della Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale. Negli ultimi 30 anni la popolazione indiana si è quasi raddoppiata; la crescita per il 2018 sarà del 7,7%. Il problema “è che non si riesce a ridistribuire la ricchezza, perché la logica del mercato fa delle persone solo dei consumatori”.
Roma (AsiaNews) – In India “il mito dell’apertura al mercato non ha risolto il problema della povertà”. Lo afferma Ambrogio Bongiovanni, docente di dialogo interreligioso e interculturale presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma e fondatore del Movimento laicale San Francesco Saverio. Egli ha trascorso alcuni anni in India ed è in contatto con il sub-continente da oltre 25 anni, svolgendo attività di ricerca e lavorando alle Nazioni Unite e al Ministero dell’industria. Nel Paese ha fondato la Maitreya (amicizia) Xaverian Charitable Society, un’associazione che si occupa di recuperare bambine vulnerabili e vittime di tratta e incentivare il dialogo tra le religioni. Ad AsiaNews parla di quel “mito del mercato” che pretendeva, in India come in altri Paesi, di avere la ricetta magica per risolvere le divisioni a livello sociale ed essere perno del processo di democratizzazione delle società. E sottolinea: “Io non critico il mercato in sé, ma quel mercato che diventa una sorta d’idolatria, cioè che assoggetta l’uomo al mercato e non un mercato a servizio dell’uomo. È questo il vero problema etico: il mercato dev’essere al servizio dei bisogni dell’uomo, e non viceversa, cioè noi consumatori che dobbiamo tenere in vita il mercato. Noi siamo persone, soggetti in relazione, e non semplici individui consumatori, ovvero oggetti da controllare al fine del business”.
L’India è un Paese che ha assistito ad una rampante crescita economica, trainata soprattutto dal settore dei servizi. In circa 30 anni la sua popolazione è quasi raddoppiata, passando da 700 milioni di abitanti negli anni ’90 a circa 1,3 miliardi nel 2018. Alla fine di quest’anno le previsioni stimano in 7,7 punti percentuali il tasso di crescita. Accanto a tutto questo però, ampi settori della popolazione sono esclusi dai benefici dello sviluppo: almeno 800 milioni di persone sono occupate nel settore agricolo, assoggettate spesso a grandi proprietari terrieri, segnato dal triste fenomeno dei suicidi tra i contadini soffocati dai debiti.
Il prof. Bongiovanni sostiene che “l’India è una grande democrazia, non solo in termini numerici ma anche concettuali. Si definisce un ‘secular country’ con una laicità basata non sulla separazione della religione, ma guardando alle religioni come potenziale della società stessa”. Tuttavia l’esistenza di una democrazia, continua, “non implica in maniera automatica che tutti i problemi siano risolti, perché esistono degli ostacoli al processo di democratizzazione che nascono dalla complessità culturale unica al mondo che caratterizza il Paese e che ne rappresenta anche la sua ricchezza”.
La società indiana “deve fare i conti con vari tipi di discriminazione: castale, di genere, di patriarcato. È sempre esistito il rischio delle tensioni intercomunitarie, quello che in inglese viene chiamato communalism, cioè gli scontri tra comunità di fede”. Inoltre è evidente una “netta separazione tra ricchi e poveri, con in mezzo una classe media che prima era quasi inesistente, ma che oggi assume un ruolo importante soprattutto in relazione al mercato”.
Nel 1991, racconta, “in seguito ad una grave crisi, l’India è stata spinta ad aprirsi ai commerci internazionali. In precedenza era uno Stato quasi autarchico con una forte politica regolamentata dai dazi. Il quel periodo si pensò, anche sotto le pressioni del FMI e della Banca Mondiale che globalizzazione e libero scambio di merci avrebbero risolto tutti i problemi di povertà”. Così invece non è stato: “Di certo l’apertura ai mercati ha favorito la classe media, cresciuta molto in termini di reddito; la produzione è esplosa; da allora la crescita è continua, così come costante è lo sviluppo di grandi città e infrastrutture. Ma accanto a questo, sono emersi anche i problemi ambientali, e soprattutto si è radicalizzata la miseria”.
Il motivo, evidenzia, “è che non si riesce a ridistribuire la ricchezza. Ma questo è un problema etico del capitalismo e del liberismo, che ne determina la crisi, e di questo mercato che pensa di trattare le persone come degli oggetti/consumatori e non come dei soggetti. L'obiettivo purtroppo è sempre raggiungere i consumatori e far girare il mercato attorno a essi”.
Per questo non è più possibile sostenere l’equazione secondo cui dal libero mercato derivino anche altre libertà individuali. “Al contrario – aggiunge – il libero mercato è un sistema che per certi versi domina e controlla anche i processi democratici. Esso mostra di mancare di un obiettivo etico. Prendiamo, ad esempio, la Cina, che ha sviluppato un libero mercato in un regime comunista in cui le libertà individuali sono ostacolate”. In India queste “differenze sono ancora più stridenti perché esso è un Paese all’avanguardia: da una parte vediamo l’eccellenza nei satelliti, nelle telecomunicazioni, nei software, nel nucleare, nella medicina”; dall’altra, più di 400 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà.
Tuttavia questi problemi non sono il risultato dell'attuale governo del premier Narendra Modi: “Esistevano molto prima di lui e sono presenti in tutti i governi che inseguono il mito del mercato”. Non bisogna nemmeno “demonizzare il mercato in quanto tale – dice –. Al contrario, per esempio in ambito cristiano, potremmo interrogarci su come gli imprenditori possano ripensare il rapporto con l’economia, seguendo anche le indicazioni di papa Francesco che nell’enciclica Laudato si’ si è posto delle domande per il bene di tutta l’umanità”. Infine conclude: “Io penso che dobbiamo investire in opere che mettano il capitale al servizio per il bene della gente”.
05/12/2022 14:10