10/06/2010, 00.00
ASIA
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Il vero surriscaldamento globale è la crisi economica del mondo

di Maurizio d'Orlando
Ci sono molti segni che la crisi è tutt’altro che finita. L’Europa, impegnata nel salvataggio dell’euro, è in prima linea. Ma il Nord america sta peggio e anche in Asia la situazione è precaria. Anche in Cina il quadro reale è ben diverso da quello comunemente descritto, di un Paese in crescita stabile.

Milano (AsiaNews) - Per decenni stampa televisione e perfino gli spettacoli d’intrattenimento ci hanno martellato sul problema del surriscaldamento mondiale e sugli effetti catastrofici che ce ne sarebbero derivati. Ci hanno detto, ma non ce l’hanno potuto dimostrare scientificamente, che il surriscaldamento è causato dall’attività umana.  Oggi possiamo constatare che un forte surriscaldamento terrestre effettivamente c’è ed è tutto opera dell’uomo, ma non è di tipo meteorologico: è economico e sociopolitico. La sensazione più sgradevole è che potrebbe essere il preludio di qualcosa di peggio. Nel prossimo G8 e poi G20 di Toronto a fine giugno di argomenti da discutere certo non ne mancheranno.

L’Europa in prima linea

In questi ultimi giorni in campo economico nei notiziari i titoli di testa riguardano l’Europa, con l’euro in continua discesa. La crisi e la possibile insolvenza greca non sono ancora state archiviate. Il pacchetto da 750 miliardi di euro di prestiti è stato appena e solo concordato. I relativi fondi non sono ancora stati reperiti perché i vari governi e parlamenti nazionali europei devono ancora approvare i necessari tagli di bilancio e misure fiscali. Ci si domanda quindi che cosa si potrà fare ora che il contagio pare chiaro che si stia estendendo anche in altri Paesi oltre alla Grecia. In Germania il presidente della Repubblica si è dimesso, mentre il governo della Merkel, anche in relazione alla gestione della crisi greca, ha visto precipitare il proprio consenso popolare al 20 %.

Per il governo del presidente francese Sarkozy la percentuale del consenso interno è simile. Il riflesso sulla finanza del continente non è da poco. A rischio sono le grandi banche commerciali europee, cosiddette private – statali di fatto, ed in certi casi anche di diritto. Questo è in effetti l’equivoco di fondo: le grandi banche europee anche quando sono nominalmente private o ad azionariato diffuso sono comunque enti pubblici con logiche pubbliche. Sono troppo grandi da dover pagare per i propri errori ed essere quindi esposte al rischio di fallire. Non sono perciò società private in cui un imprenditore o un gruppo di imprenditori gestisce e rischia in proprio averi propri.

Relativamente meno esposte al bubbone dei derivati rispetto alle consorelle americane e britanniche, le banche europee ad ogni modo sembravano finora versare in situazione meno precaria. Vediamo che non era così e la loro debolezza, abilmente sottaciuta, sta emergendo solo ora, in un settore in cui le loro consorelle americane si erano defilate. La gran parte dei finanziamenti internazionali ai Paesi emergenti, ed all’Est europeo in particolare, sono stati infatti erogati dalle maggiori banche continentali europee. In prima linea ci sono le banche francesi (Société Général, ad esempio) e tedesche, ma non solo, anche quelle svizzere, austriache (Raffeisen) e svedesi (esposte in particolar modo verso i Paesi del Baltico) sono particolarmente sotto tiro. Per aver incorporato due banche, una tedesca e l’altra austriaca molto esposta verso l’est europeo è anche l’italiana Unicredit e, rimanendo all’Italia, per brevità tralasciamo Generali ed Intesa.

Non è perciò una sorpresa se traballa il debito degli Stati e non solo per quanto riguarda Portogallo, Irlanda e Spagna. In base all’incremento dei CDS (Credit Default Swaps, che misurano il rischio d’insolvenza) e dei differenziali di rendimento, sono a rischio anche il debito pubblico dell’Italia e della Francia. Inaudito, perfino un’asta di titoli di Stato tedeschi, ha dovuto registrare un insuccesso! La Polonia ha visto i vertici dello Stato e della sua classe dirigente perire in un incidente aereo alla vigilia di una progettata e davvero destabilizzante svalutazione dello zloty, la valuta nazionale, poi non più attuata. Oggi sul palcoscenico dei trucchi di bilancio e del pericolo d’insolvenza è la volta dell’Ungheria. Che dire però dell’Ucraina alle prese con un drammatico calo del Pil ? 

Potremmo continuare, ma preferiamo fornire due accenni ad alcuni sviluppi politici, soffocati dal susseguirsi senza sosta di problematiche notizie finanziarie. Ebbene, nel cuore dell’Europa, un Paese è prossimo a spaccarsi: in Belgio si preannuncia, infatti, una secessione o una forma di separazione consensuale. Nei Balcani, poi, il Kosovo è di nuovo in ebollizione e tutta l’area finirà per risentirne. Per completare il quadro europeo ci sarebbero anche la Gran Bretagna, che però dal punto di vista economico fa parte più del Nord America, e la Russia, che è essenzialmente euroasiatica ed in fondo è un continente a sé. Il tutto si traduce in una debolezza dell’euro, una vera boccata d’ossigeno per l’economia di Paesi esportatori come Germania, Francia Italia e Paesi Bassi. Sia chiaro però che il sollievo dell’euro basso sarà di molto breve periodo.

Il Nord America sta peggio

Degli Stati Uniti abbiamo già spesso scritto di recente ad AsiaNews[1]. Per non ripeterci, ricordiamo solo che se si prende in considerazione nel debito USA anche i debiti delle GSE, le imprese parastatali come AIG, Fannie Mae, Freddie Mac ecc.,  il costo dei salvataggi bancari (24mila miliardi di dollari secondo Neil Barofsky), gli impegni senza copertura (unfunded liabilities) (108 mila miliardi di dollari) per Medicare e Medicaid ecc. e senza considerare il debito interno di Stati e municipalità, il rischio dell’insolvenza sul debito pubblico è ben maggiore oltre Atlantico e nelle sue dipendenze, Regno Unito in primo luogo.

Non si tratta di preconcetto antiamericanismo. Conti alla mano, il (reale) rapporto tra il totale del debito pubblico ed il Pil è – a seconda di cosa si preferisca includere nella definizione di debito pubblico – tra il 450% ed il 900% del Pil. Il rapporto è cioè ben peggiore negli USA che in Europa, senza considerare il debito privato, delle imprese ed il deficit commerciale. Inoltre se le banche europee soffrono per i crediti spensieratamente forniti a Stati che truccavano i bilanci pubblici, non dimentichiamo il bubbone dei derivati, per la stragrande parte in pancia al sistema finanziario statunitense. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI)  si tratta di uno scherzetto da 600 mila miliardi di dollari di valore attualizzato. Il valore nominale è addirittura una cifra quasi inesprimibile, mille miliardi di dollari. Come si dirà in inglese, un quadrilione di dollari ?

Da un punto di vista interno, oltre all’emergere di una terza forza (il “Tea Party”), fenomeno che di rado gli USA hanno conosciuto, si segnalano due sviluppi finora imprevedibili. In primo luogo osserviamo una marcata accentuazione delle differenze politiche e socioeconomiche tra le diverse macro-aree del Paese (Costa orientale e Nuova Inghilterra, Stati del Sud a maggioranza afroamericana, California e fascia mexico-americana, dorsale centrale indiana e Costa pacifica settentrionale). La prossima ondata di insolvenze nel settore immobiliare sarà significativamente diversa nelle varie macro-aree ed i relativi problemi sociali sono chiaramente prevedibili e diversi da zona a zona.

Un altro grave problema del Nord America è la crescente instabilità del Messico sia per il sempre più profondo insediamento mafioso del narcotraffico che di un problema spesso ignorato. Finora il Messico ha potuto usufruire degli introiti valutari garantiti dalle esportazioni petrolifere. Da tempo però la Pemex, la società statale che ha il monopolio degli idrocarburi, non investe a sufficienza. Si è perciò formata una divaricazione a forbice tra produzione decrescente e consumi interni crescenti. Tra poco il Messico sarà importatore netto di idrocarburi e questo comporterà un grave squilibrio nei suoi introiti valutari. Insomma mentre al Nord v’è una crescente tensione al confine con il Canada a causa dei controlli anti terroristici, anche al Sud con il Messico si profila una fascia di sempre maggiore instabilità. Si aggiunga che nel Golfo del Messico il problema della fuoriuscita di greggio dal giacimento della BP in base ad alcune informative sembra sia lontano dall’essere definitivamente risolto. Qualcuno parla di un secondo squarcio molto maggiore ad alcune decine miglia di distanza dal primo.

 Anche in Asia la situazione è precaria un po’ dovunque

In Giappone il governo del Partito Democratico, dopo solo pochi mesi ha perso dei pezzi della coalizione ed è andato alle corde. Hatoyama, che aveva condotto il partito ad una storica vittoria solo pochi mesi fa, ha dato le dimissioni ed al suo posto è stato eletto primo ministro Naoto Kan, ministro del Tesoro nel precedente governo. Solo poco fa, dopo decenni di governi liberal-democratici, molti avevano festeggiato la nuova coalizione come l’avvento di una nuova era, un cambiamento epocale ed il consenso era alle stelle, circa il 70 %. Per i giapponesi era, infatti, la fine di un sistema di governo che nei primi decenni del dopoguerra pareva aver ben meritato. Come di recente la Cina, la rinascita giapponese dopo la sconfitta bellica aveva tratto forza dallo straripare delle esportazioni sul mercato statunitense e su quelli di tutto il mondo, una sorta di espansionismo, non più militare, come quello del Giappone imperiale di prima della guerra, ma neo-mercantilista e comunque a spese del resto del mondo. Non poteva durare e non durò.

Nel 1985, per arrestare “l’invasione” nipponica gli USA costrinsero il Giappone a firmare gli accordi del Plaza che lo impegnavano a sviluppare il mercato ed i consumi interni. Scrupolosi come sempre, i giapponesi adottarono l’ideologia allora data per vincente, l’ortodossia keynesiana. Il risultato fu lo scoppio della bolla immobiliare e della borsa. Seguirono, dal 1987, due decenni di soffocante stagnazione e debito crescente. D’altronde, in Giappone, come altrove, la ricetta keynesiana, il metadone finanziario, di per sé non è stata e non è in grado di produrre né ricchezza né benessere di lungo periodo. D’altro canto Keynes in questo era stato candido. A chi gli contestava lo squilibrio nel lungo termine del suo modello economico, rispondeva  che nel lungo termine saremo tutti morti.

Il tempo, però, inesorabilmente passa ed il futuro è tra noi. Da un lato, per il 2010 il rapporto tra debito e Pil giapponese è ufficialmente attorno al 200 % del Pil (quello reale, ovviamente, è ben superiore). Dall’altro lato, la società giapponese si ritrova sprofondata in un vuoto, una pesante e prolungata crisi non solo economica ma anche sociale, morale, familiare, di senso antropologico e demografica. Era quasi inevitabile che il sistema di governo liberal-democratico andasse progressivamente verso una forma di degenerazione irreversibile, in una sorta di regime corrotto e, di fatto, inamovibile per mancanza di alternative. L’iniziale entusiasmo per la nuova coalizione era perciò comprensibile.

Pertanto l’impossibilità di mantenere un impegno promesso in campagna elettorale, lo spostamento della base militare americana di Okinawa, è stata, certo, nell’immediato, la causa episodica della crisi del governo Hatoyama. In realtà, se il consenso popolare per la coalizione di governo, già prima delle dimissioni, era precipitato sotto al 20 %, la questione della base militare di Okinawa è solo la punta dell’iceberg. La disillusione ha cause più profonde e Naoto Kan ha davanti a sé un compito molto arduo, se non impossibile. Non si vede un progetto credibile e soprattutto il Paese percepisce un senso di smarrimento di fronte ad una grave crisi interna, economica, finanziaria, politica e sociale che si somma ad una gravissima crisi economica mondiale. Non lo si dice apertamente, non solo perché così è nel carattere del Paese, ma perché è quanto avviene anche nel resto del mondo. Seppur taciuta è, però, diffusa la consapevolezza che il debito pubblico giapponese di fatto, non è ripagabile e che perciò le speranze di risanamento e nuova crescita sono comunque compromesse indipendentemente dal colore del governo. In base alla logica ed alle umane considerazioni, ed a meno di un vero e trascendente  miracolo, soluzioni reali e definitive perciò non sembrano esistere e questa è la causa profonda del malessere. 

La penisola coreana

Nella penisola coreana, la Corea del Nord è letteralmente alla fame e piagata dalle malattie e, proprio da qui nasce l’affondamento della Cheonan, un vero e proprio atto di guerra. Il regime del Nord, infatti, non vuole riconoscere il proprio fallimento, né passare la mano, ma sfruttare il solito ricatto nucleare. Finché è stato possibile, la crisi, è passata sotto silenzio, per quasi un mese, anche perché, nel pieno della crisi finanziaria mondiale, la Corea del Sud non voleva certo vedere schizzare alle stelle il costo del suo debito estero. È esplosa quando non poteva più essere ignorata senza perdere del tutto la faccia. Di fronte alle minacce nordcoreane di una guerra “totale” – sottointeso, nucleare – qualcosa sembrava si fosse mosso. Gli USA non avrebbero insistito sulla questione commerciale con la Cina e questa avrebbe tenuto buoni i nordcoreani con quanto è loro necessario. L’equilibrio però è molto precario e l’abisso potrebbe spalancarsi da un momento all’altro.

L’Afghanistan e…

Della continua guerriglia in Afganistan e della non pace in Iraq c’è forse qualcosa ancora da dire che non sia stato detto e che i bollettini quotidiani ci rammentano di continuo ? Che dire ancora della Thailandia e del Kirghizistan tra insurrezioni e guerra civile a bassa intensità ? Tralasciamo Tibet, Uzbekistan, ed altro ancora. Accenniamo solo ai problemi interni di India e Pakistan, senza dimenticare il contenzioso sempre latente tra di loro a causa del Kashmir. Abbiamo già più volte scritto di Israele e dell’Iran[2]. Delle tensioni in Asia centrale, Kirghizistan ed Uzbekistan in primo luogo, pure abbiamo dato notizia. In Thailandia una da tempo latente guerra civile ha conquistato per qualche settimana le prime pagine dei giornali per poi di nuovo scomparirne, senza che il conflitto interno si sia davvero risolto. Lo stesso si potrebbe dire della perenne tensione tra India e Pakistan e dei problemi interni dei due grandi paesi del subcontinente.

I problemi della Cina

Il nodo vero, però, in Asia (e nel mondo) è la Cina e sta venendo al pettine quanto ad AsiaNews abbiamo ripetuto in più occasioni a partire da quanto scrivevamo nel novembre 2003[3]. Il sistema economico cinese, al di là degli apparenti successi, è molto inefficiente in termini di impiego delle risorse, sia umane che materiali. Ad esempio per ogni punto percentuale d’incremento annuo del Pil cinese, per anni ha corrisposto un incremento di quattro punti percentuali del consumo annuo di energia. Altrettanto si può verificare per le diverse materie prime. Per le risorse umane un paragone sintetico è da un lato più difficile, dall’altra più semplice. Non ci sono solo i dati dei morti nelle miniere cinesi di carbone o il recente caso dei suicidi alla Foxconn. Basta ricordare che per decenni il tasso di cambio dello yuan attualmente praticato è stato ben inferiore (per lo meno oltre il 40 % ed il più del tempo il 55 %) rispetto a quello desumibile dal rapporto di parità di potere d’acquisto.  Per chiarirci, significa che la Cina per mantenere dei surplus della bilancia commerciale ha sovvenzionato le esportazioni ed ha permesso che il lavoratore cinese fosse sottopagato di un pari importo.

Come per primi abbiamo sostenuto ad AsiaNews e molte volte ripetuto, il modello economico adottato dalla Cina è quello mercantilista in cui il benessere della nazione è misurato solo in base alle riserve valutarie detenute grazie al crescendo di esportazioni rese possibili da un tasso di cambio arbitrario. Date le dimensioni stesse della Cina - oltre 1,3 miliardi di persone - la distorsione introdotta nel sistema economico mondiale, ha stravolto e stravolge quasi ogni impresa, ogni industria, ogni Paese della terra. Di questo si deve ringraziare la “globalizzazione”. Nessuno più ricorda come tutto questo sconquasso economico mondiale si sia prodotto, ma è molto semplice: aver fatto finto che la Cina, governata con pugno di ferro dal Partito comunista, fosse un Paese ad economia di libero mercato.

Era solo una finzione politica, un accordo utile alle élite sia in Oriente che in Occidente: serviva una transizione “dolce” al posto di quella aspra conseguente all’implosione dell’Impero Sovietico. Si garantiva così agli uni il mantenimento del potere ed agli altri profitti straordinari necessari a puntellare un impero di carta, l’ennesima bolla, quella dei derivati e della finanza fine a se stessa. La grande menzogna fu celebrata con grande enfasi, con gli accordi di liberalizzazione doganale e tariffaria del WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, come l’avvento di una nuova era. Oggi di tanto splendore ne vediamo i detriti: una crisi di sovraccapacità inutilizzata, un turbine di carta finanziaria e di debiti/crediti senza sottostante, una bolla immobiliare fatta di intere città nuove di zecca, ma senza abitanti, una generazione che si è immolata sull’altare della modernizzazione e che ora non ne può davvero più.

Salvateci dai Premi Nobel

Che non fosse possibile far convivere il libero scambio con un regime di tassi di cambio fissati d’arbitrio dal PC cinese lo poteva capire qualsiasi persona di buon senso, tranne ovviamente i celebrati esperti economici, i commentatori della stampa e della televisione, soprattutto gli economisti.

Nel 1998 nel mezzo della crisi asiatica (1997) e russa (1998) al centro dei problemi c’era la Long-Term Capital Management (LTCB) gestita da due premi Nobel, Myron Scholes e Robert Merton. Insieme a loro c’era già tutta la coorte che abbiamo rivisto in tempi recenti (Bear Stearns, Merrill Lynch, Goldman Sachs, AIG, Berkshire Hathaway di Warren Buffett, Bankers Trust, Barclays, Chase, Credit Suisse First Boston, Deutsche Bank, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Salomon Smith Barney, Société Générale).  

Per la crisi dei derivati, oltre ai politici Bill Clinton, George W. Bush, Larry Summers, Tim Geithner e molti altri ancora, oltre cha agli ineffabili Alan Greenspan, Ben Bernanke, Jean Trichet, Dominique Strauss-Khan, Mario Draghi, presidente dell’International Stability Forum ( e “Gran maestro” di laicità) dobbiamo ringraziare molti altri economisti e premi Nobel: Modigliani, Miller, Black Scholes, Sharpe, Markowitz, il premio Nobel 2003 Robert Engle. Il premio Nobel per l’economia (1976) Milton Friedman va aggiunto alla lista per la sua influenza su Alan Greenspan.

Per la nuova ondata conseguente al “quantitative easing” di Obama di cui in questi giorni constatiamo il misero fallimento un particolare ringraziamento lo dobbiamo a Paul Krugman, anche lui premio Nobel per l’economia ed editorialista di punta dell’ineffabile New York Times (l’autorevole quotidiano fustigatore del papa, Benedetto XVI, per la vicenda della pedofilia). Visti i risultati, viste le sofferenze che infliggono a miliardi di persone nel mondo le decisioni di pochi banchieri centrali imbambolati da prestigiosi economisti, spesso insigniti di premi Nobel, ad AsiaNews avremmo una sommessa richiesta ed un accorato appello da indirizzare ai luterani del Regno di Svezia, nostri fratelli in Cristo mediante il comune battesimo, e soprattutto alla  Banca centrale svedese, cui compete il compito di assegnare i premi per l’economia. Per cortesia smettetela di piazzare patacche. Il premio Nobel per l’economia oggi è un vero e proprio titolo d’infamia. Soprattutto è l’origine di troppi disastri in economia.

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