Il seggio Onu per la Palestina: l’ipocrisia dell’occidente
di Bernardo Cervellera
Stati Uniti, Israele, Europa lavorano con frenesia per fermare la richiesta che Abbas farà all'Assemblea Onu del 23 settembre: il riconoscimento di un Stato palestinese. Minacce di tagliare gli aiuti ai palestinesi, col rischio di manifestazioni e scontri nei territori. Ma dopo i fallimenti dei dialoghi di pace - per il contino sequestro di terra e acqua palestinesi da parte dei coloni israeliani - il seggio all'Onu è la migliore garanzia alla pace.
Roma (AsiaNews) – Il 23 settembre, il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Mahmoud Abbas, all’Assemblea generale dell’Onu presenterà la richiesta che la Palestina sia riconosciuta come Stato e come membro a parte intera nell’organismo delle Nazioni Unite, "nei confini del 1967".
L’idea è nata circa un anno fa e ha ricevuto il sostegno di quasi 130 nazioni. Da almeno un anno gli ambasciatori israeliani nel mondo lavorano – senza successo - per bloccare questo tentativo che secondo loro mette in crisi la pace nella regione e i dialoghi fra Israele e palestinesi, bloccati da più di un anno per il fatto che Israele non ferma la costruzione e l’allargamento degli insediamenti israeliani nei Territori occupati.
Anche gli Stati Uniti, dopo tentennamenti e immobilismo, tentano a tutti i costi di bloccare il tentativo palestinese. Washington ha già detto che metterà il veto alla richiesta di Abbas perché il Consiglio di Sicurezza non l’accetti. In tal caso i palestinesi sono pronti a domandare direttamente all’Assemblea di offrire alla Palestina almeno un seggio come “osservatore”, con diritto di rappresentanza nei vari organismi Onu. In questo caso, la vittoria è quasi sicura.
Per scongiurare anche questa evenienza, Barack Obama oggi si incontra col premier israeliano Benjamin Netanyahu e (forse) con Mahmoud Abbas, per farlo desistere dalla proposta, offrendo in cambio la ripresa dei dialoghi a due. Ma questa è una possibilità remota: il governo Netanyahu è sostenuto dal partito nazionalista estremista di Avigdor Lieberman, che non accetta lo stop degli insediamenti e anzi, ha promesso di accrescerli.
Stati Uniti e Israele sono decisi a usare anche l’arma economica. Parlamentari Usa hanno chiesto a Obama di bloccare gli aiuti ai palestinesi, se Abbas osa presentare la sua domanda; Israele ha detto che per rappresaglia non verserà i fondi delle tasse dovute ai palestinesi.
Dopo gli accordi di Oslo (1993), Israele versa all’Autorità palestinese (Ap) le tasse che esso preleva a nome di quest’ultima sulle merci che transitano nei porti e aeroporti israeliani. Questi fondi – oltre 700 milioni di euro all’anno – sono circa i due terzi del bilancio annuale dell’Ap.
Senza questi aiuti l’Ap rischia di non avere il denaro necessario per pagare gli stipendi di impiegati e polizia e di non poter sostenere gli sviluppi urbanistici e stradali avviati nei Territori.
In Israele e nel mondo arabo si nutrono dubbi sulla sanità della decisione di tagliare i fondi: se i palestinesi vedono che i loro mezzi per vivere sono bloccati da Israele, ciò potrà scatenare grandi manifestazioni e proteste, sullo stile di quanto avvenuto per la primavera araba.
Fa davvero impressione il fatto che la leadership palestinese, con la sua iniziativa diplomatica, abbia conquistato le prime pagine di tutti i giornali. E stanno conservando il posto in prima pagina anche in questi giorni in cui vi sono altre notizie nazionali e internazionali di grande urgenza: pensiamo ad esempio alla crisi finanziaria greca, con il suo potenziale effetto sull’euro e sull’Unione europea.
Ma soprattutto è divertente vedere il panico che ha invaso tanta parte del mondo occidentale alla vista dei palestinesi che questa volta non prendono le armi, ma fanno quanto è stato loro consigliato per decenni, e cioè cercare di conquistare la libertà con mezzi pacifici e diplomatici!
Onestamente è difficile comprendere l’ansietà che molti governi d’occidente esprimono di fronte all’iniziativa palestinese. Ancora di più, sono incomprensibili le minacce di Israele e Stati Uniti a volerli “punire” per un gesto pacifico come è quello di andare alle Nazioni Unite e esprimere una richiesta. In fondo si tratta semplicemente di una richiesta: i governi che sono d’accordo con essa, voteranno in favore; quelli che non sono d’accordo, voteranno contro. Cosa c’è di così terribile nel fare una richiesta e nel metterla ai voti?
La sola risposta possibile è che la richiesta palestinese per il riconoscimento di un seggio all’Onu, come membro a parte intera o come osservatore, mette l’occidente davanti a una prova a cui alcuni Paesi importanti cercano di sfuggire a tutti i costi: e cioè se è vero e credibile quanto loro hanno sempre assicurato di essere a favore della “fine dell’occupazione iniziata nel 1967” (sono parole dell’allora presidente George W. Bush.
È molto significativo che nella frenetica attività diplomatica scatenatasi in questi giorni si parli della “ricerca di una formula” per persuader la leadership palestinese ad abbandonare la sua richiesta all’Onu. I palestinesi hanno risposto che il tempo delle “formule” è ormai terminato.
Venti anni fa essi hanno partecipato alla Conferenza di pace di Madrid; il 13 settembre 1993 hanno firmato gli “Accordi di Oslo”, una dichiarazione di principi sul reciproco riconoscimento fra la nazione palestinese e israeliana.
Eppure, lungo tutto questo periodo, all’interno dei territori occupati da Israele nel 1967, essi hanno visto le loro terre sempre più sequestrate dai coloni israeliani. Ogni giorno la terra – e l’acqua – disponibile per un futuro Stato palestinese è stata “mangiata”, occupata dagli insediamenti e tutto sotto l’etichetta del “processo di pace”.
Il presidente Usa Barack Obama, all’inizio del suo mandato, aveva chiesto a Israele di fermare le attività delle colonie, ma in seguito ha ritrattato. Ora la leadership palestinese si domanda: Come è possibile negoziare il futuro di un territorio mentre l’altra parte, il potere occupante, continua ad insediare sempre più elementi della sua popolazione in quel territorio?
Divenire uno Stato riconosciuto, sotto la protezione dell’Onu, darà ai palestinese una protezione maggiore e potrà indurre Israele a fermarsi nel divorare la loro terra e la loro acqua.
Il riconoscimento dell’Onu renderà possibile per i palestinesi negoziare un trattato di pace con Israele – il vero scopo di tutte queste mosse alle Nazioni Unite, ha detto Abbas – sulla base di una uguale dignità e diritti con lo Stato di Israele, del quale essi hanno già riconosciuto da tempo l’esistenza e il diritto, come pure i suoi confini internazionali.
L’idea è nata circa un anno fa e ha ricevuto il sostegno di quasi 130 nazioni. Da almeno un anno gli ambasciatori israeliani nel mondo lavorano – senza successo - per bloccare questo tentativo che secondo loro mette in crisi la pace nella regione e i dialoghi fra Israele e palestinesi, bloccati da più di un anno per il fatto che Israele non ferma la costruzione e l’allargamento degli insediamenti israeliani nei Territori occupati.
Anche gli Stati Uniti, dopo tentennamenti e immobilismo, tentano a tutti i costi di bloccare il tentativo palestinese. Washington ha già detto che metterà il veto alla richiesta di Abbas perché il Consiglio di Sicurezza non l’accetti. In tal caso i palestinesi sono pronti a domandare direttamente all’Assemblea di offrire alla Palestina almeno un seggio come “osservatore”, con diritto di rappresentanza nei vari organismi Onu. In questo caso, la vittoria è quasi sicura.
Per scongiurare anche questa evenienza, Barack Obama oggi si incontra col premier israeliano Benjamin Netanyahu e (forse) con Mahmoud Abbas, per farlo desistere dalla proposta, offrendo in cambio la ripresa dei dialoghi a due. Ma questa è una possibilità remota: il governo Netanyahu è sostenuto dal partito nazionalista estremista di Avigdor Lieberman, che non accetta lo stop degli insediamenti e anzi, ha promesso di accrescerli.
Stati Uniti e Israele sono decisi a usare anche l’arma economica. Parlamentari Usa hanno chiesto a Obama di bloccare gli aiuti ai palestinesi, se Abbas osa presentare la sua domanda; Israele ha detto che per rappresaglia non verserà i fondi delle tasse dovute ai palestinesi.
Dopo gli accordi di Oslo (1993), Israele versa all’Autorità palestinese (Ap) le tasse che esso preleva a nome di quest’ultima sulle merci che transitano nei porti e aeroporti israeliani. Questi fondi – oltre 700 milioni di euro all’anno – sono circa i due terzi del bilancio annuale dell’Ap.
Senza questi aiuti l’Ap rischia di non avere il denaro necessario per pagare gli stipendi di impiegati e polizia e di non poter sostenere gli sviluppi urbanistici e stradali avviati nei Territori.
In Israele e nel mondo arabo si nutrono dubbi sulla sanità della decisione di tagliare i fondi: se i palestinesi vedono che i loro mezzi per vivere sono bloccati da Israele, ciò potrà scatenare grandi manifestazioni e proteste, sullo stile di quanto avvenuto per la primavera araba.
Fa davvero impressione il fatto che la leadership palestinese, con la sua iniziativa diplomatica, abbia conquistato le prime pagine di tutti i giornali. E stanno conservando il posto in prima pagina anche in questi giorni in cui vi sono altre notizie nazionali e internazionali di grande urgenza: pensiamo ad esempio alla crisi finanziaria greca, con il suo potenziale effetto sull’euro e sull’Unione europea.
Ma soprattutto è divertente vedere il panico che ha invaso tanta parte del mondo occidentale alla vista dei palestinesi che questa volta non prendono le armi, ma fanno quanto è stato loro consigliato per decenni, e cioè cercare di conquistare la libertà con mezzi pacifici e diplomatici!
Onestamente è difficile comprendere l’ansietà che molti governi d’occidente esprimono di fronte all’iniziativa palestinese. Ancora di più, sono incomprensibili le minacce di Israele e Stati Uniti a volerli “punire” per un gesto pacifico come è quello di andare alle Nazioni Unite e esprimere una richiesta. In fondo si tratta semplicemente di una richiesta: i governi che sono d’accordo con essa, voteranno in favore; quelli che non sono d’accordo, voteranno contro. Cosa c’è di così terribile nel fare una richiesta e nel metterla ai voti?
La sola risposta possibile è che la richiesta palestinese per il riconoscimento di un seggio all’Onu, come membro a parte intera o come osservatore, mette l’occidente davanti a una prova a cui alcuni Paesi importanti cercano di sfuggire a tutti i costi: e cioè se è vero e credibile quanto loro hanno sempre assicurato di essere a favore della “fine dell’occupazione iniziata nel 1967” (sono parole dell’allora presidente George W. Bush.
È molto significativo che nella frenetica attività diplomatica scatenatasi in questi giorni si parli della “ricerca di una formula” per persuader la leadership palestinese ad abbandonare la sua richiesta all’Onu. I palestinesi hanno risposto che il tempo delle “formule” è ormai terminato.
Venti anni fa essi hanno partecipato alla Conferenza di pace di Madrid; il 13 settembre 1993 hanno firmato gli “Accordi di Oslo”, una dichiarazione di principi sul reciproco riconoscimento fra la nazione palestinese e israeliana.
Eppure, lungo tutto questo periodo, all’interno dei territori occupati da Israele nel 1967, essi hanno visto le loro terre sempre più sequestrate dai coloni israeliani. Ogni giorno la terra – e l’acqua – disponibile per un futuro Stato palestinese è stata “mangiata”, occupata dagli insediamenti e tutto sotto l’etichetta del “processo di pace”.
Il presidente Usa Barack Obama, all’inizio del suo mandato, aveva chiesto a Israele di fermare le attività delle colonie, ma in seguito ha ritrattato. Ora la leadership palestinese si domanda: Come è possibile negoziare il futuro di un territorio mentre l’altra parte, il potere occupante, continua ad insediare sempre più elementi della sua popolazione in quel territorio?
Divenire uno Stato riconosciuto, sotto la protezione dell’Onu, darà ai palestinese una protezione maggiore e potrà indurre Israele a fermarsi nel divorare la loro terra e la loro acqua.
Il riconoscimento dell’Onu renderà possibile per i palestinesi negoziare un trattato di pace con Israele – il vero scopo di tutte queste mosse alle Nazioni Unite, ha detto Abbas – sulla base di una uguale dignità e diritti con lo Stato di Israele, del quale essi hanno già riconosciuto da tempo l’esistenza e il diritto, come pure i suoi confini internazionali.
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