27/07/2024, 09.00
MONDO RUSSO
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Il putinismo oltre Putin

di Stefano Caprio

Il russo medio non sostiene questa impostazione, ma non sa come contrastarla, e guarda con terrore agli esiti della guerra: la sconfitta getterebbe tutti nel panico, ma anche una vittoria rischierebbe di destabilizzare le relazioni sociali, non sapendo che cosa potrebbe accadere “dopo”, qualunque sia l’esito delle vicende in corso.

Ci sono almeno tre teorie per spiegare come mai la Russia, in un modo o nell’altro, finisca sempre per entrare in conflitto con il mondo intero. La prima è quella del “ritardo storico”, dovuto all’essersi formata come Stato europeo solo alla fine del primo millennio, e aver subito in seguito due secoli di “giogo tartaro” tra il 1200 e il 1400, non riuscendo ad adeguarsi alla modernità. La seconda teoria, più di orientamento “slavofilo”, è che la Russia abbia una propria civiltà originale da sviluppare, che è sempre stata contrastata dai nemici di Oriente e Occidente, e quindi non è mai riuscita ad esprimersi compiutamente. Infine, si dà tutta la colpa alla sfortuna di aver avuto quasi sempre dei leader inadeguati, o per squilibri mentali o per debolezze insuperabili, cosa in parte certamente vera. Le tre teorie, del resto, sono complementari e ampiamente dimostrabili con gli eventi della storia russa.

Queste spiegazioni si adattano in buona parte anche alla Russia di Putin, scaturita dal ritardo storico di un sistema sclerotizzato e in affanno rispetto al mondo “civilizzato” com’era l’Unione Sovietica, dall’essere stata narcotizzata dal totalitarismo comunista e aver cercato poi di ritrovare la propria anima in mezzo a mille contraddizioni, e aver dovuto subire le riforme inefficaci di Mikhail Gorbačev e Boris Eltsin, per ritrovarsi con una figura priva di qualità e in preda a una deriva come Vladimir Putin.

Siamo dunque punto a capo, con una Russia che ha mandato all’aria gli sforzi di un trentennio, e si ritrova a dover reinventare sé stessa sotto la guida di uno zar debilitato e delegittimato a livello internazionale, come era accaduto con altre figure del passato antico e recente. È proprio il caso di dire che Putin ha sparato tutte le sue cartucce, e ora trascina un’idea di guerra mondiale con ben poche speranze di ottenere qualche risultato, se non quello di chinarsi al vassallaggio della Cina e alla compagnia improbabile di partner internazionali come l’Iran e la Corea del nord. Le confuse immagini di trattative di pace di queste ultime settimane, dalla Svizzera all’Ungheria passando di nuovo per Pechino, dipendono da fattori esterni su cui Mosca non ha in realtà un’influenza decisiva, nonostante tutti i suoi sforzi di propaganda esterna, come le prossime elezioni americane che coincideranno con la grande festa nazionale russa dell’Unità Popolare del 4 novembre, la fine dei Torbidi in cui il Cremlino era quasi finito in mano agli odiati polacchi e ai loro alleati interni, gli avi degli “agenti stranieri” di oggi.

Il viaggio di Putin a Pyongyang dello scorso 18 giugno è l’immagine più significativa delle condizioni in cui si trova oggi la Russia, trovando in uno dei Paesi più refrattari del mondo l’unica vera compagnia, tanto che in questi giorni gli studenti russi affollano i campi di “vacanza rieducativa” dei nord-coreani per allenarsi al patriottismo cieco e militante. Si è avverata la profezia del “grande leader” Kim Il-sung, nonno dell’attuale presidente Kim Jong-un, che nel 1950 divorziò dall’Unione Sovietica proclamando la “autonomia del corpo”, un principio di tante forme asiatiche di spiritualità: oggi è la Russia a doversi sostenere da sola, cercando l’equilibrio delle proprie forze, esaltando i cosiddetti “valori tradizionali morali e spirituali”.

Fino a due anni fa, prima dell’inizio della guerra in Ucraina, la Russia era tutt’altro che un Paese isolato e autonomo, anzi era molto integrato nell’economia mondiale e in tutto dipendente dai rapporti con l’estero, in particolare con l’Occidente, nel colossale scambio di risorse soprattutto energetiche e tecnologiche, che ora si è completamente interrotto. Grazie a questi rapporti passati, la Russia si ritrova ancora in uno stato di relativo benessere, certamente al di sopra della media mondiale, e sempre dipendente dall’import-export, che ora cerca affannosamente di ri-orientare sui mercati asiatici; rimane comunque dipendente dall’estero, non avendo le forze e le capacità di reggersi su una vera economia autarchica, che del resto sarebbe una completa follia nel mondo globalizzato. Il segnale evidente di questa impotenza è la crescita inarrestabile dell’inflazione, dovuta agli squilibri di una bilancia estera commerciale impossibile da riassestare ai livelli dei decenni passati.

La Russia non può veramente separarsi dal resto del mondo, soltanto diventa sempre più difficile trovare veramente la sua collocazione: per le importazioni dipende dalla Cina, nell’export rimane legata ai prezzi del petrolio, che sono sempre meno convenienti per Mosca. Per affrontare le sfide del futuro, il regime putiniano per ora riesce soltanto a illudere la popolazione che “niente cambia”, si trovano altre vie per mantenere l’attuale livello di vita, ma rischia di andare incontro a una progressiva degenerazione, se non a un completo fallimento. Il sistema viene ormai definito il “putinismo militante a lungo termine”, che determinerà il futuro del Paese ben al di là delle capacità e della durata del suo leader; è una visione del mondo senza ritorno, che si proietta sull’immagine di un mondo in cui la Russia è schiacciata dalla sua stessa ideologia “multipolare”. C’è un polo occidentale e uno orientale, la Russia rimane tra l’incudine e il martello, e nessuno ha interesse a tirarla fuori da questo vicolo cieco.

Il problema è che quando Putin ha deciso l’invasione dell’Ucraina, sostenuto da una casta di fedelissimi, in realtà alla guerra non erano pronti né la società russa e neanche le élite, tanto meno l’economia e la stessa macchina bellica. Ora il regime si è adattato a questa sfida inattesa prodotta al suo interno, soffocando ogni protesta e ogni incertezza, e si è stabilizzato in una condizione ormai quasi impossibile da scardinare. È una stabilità al ribasso, che può soltanto cercare di compensare le sue crescenti debolezze. Il putinismo si proietta oltre Putin non per vero sostegno e neppure per vera opposizione, ma per un adattamento a una condizione senza più alternative. La Russia ha il problema di conservare sé stessa, nella guerra permanente e nel blocco delle sanzioni, nelle relazioni con Paesi del tutto estranei alla sua natura e alla sua cultura; ha bisogno della guerra come unica forma di relazione con l’esterno e con la sua stessa popolazione, non c’è più alcun compromesso o trattativa da discutere. Se Putin dovesse morire domani, non sorgerebbe dal nulla alcun nuovo leader per proclamare la fine delle ostilità, e riallacciare le relazioni con l’Occidente.

Quando non rimane più nulla, la Russia si arrocca nel patriottismo più integrale e fanatico, eredità del suo multiforme passato imperiale, e questo fatica ad essere compensato dall’ansia della modernizzazione, di “non rimanere indietro” una volta ancora rispetto al resto del mondo. Il russo medio non sostiene questa impostazione, ma non sa come contrastarla, e guarda con terrore agli esiti della guerra: la sconfitta getterebbe tutti nel panico, ma anche una vittoria rischierebbe di destabilizzare le relazioni sociali, non sapendo che cosa potrebbe accadere “dopo”, qualunque sia l’esito delle vicende in corso. Se apriamo di nuovo il Paese agli occidentali, ecco che si approprieranno ancora di tutte le risorse; se rimaniamo dietro la nuova cortina di ferro, non riusciremo a stare al passo del progresso tecnologico, e nessuno ci darà più una mano.

Il sistema sovietico aveva avuto una parabola simile, dall’isolamento al tentativo di raggiungere il livello degli avversari, e questo lo ha distrutto definitivamente. La forza dell’impero si basava spesso sulle fasi critiche dello stesso Occidente, nei periodi di guerre e rivoluzioni, mentre la Russia cercava di mostrare la sua stabilità e serenità interiore. Questo è un altro dei concetti fondamentali del putinismo: noi stiamo bene, ci godiamo le nostre tradizioni e la nostra purezza ortodossa, mentre “quel mondo degradato” sta perdendo la sua identità e la sua presunta superiorità. E in effetti, la svolta bellica e imperialista della Russia coincide oggi con una profonda crisi della democrazia occidentale.

Un sondaggio di Sistema tra esperti e politologi russi, americani e di altra provenienza conferma che il putinismo durerà a lungo anche dopo Putin, a meno che non avvengano catastrofi anche superiori alla sconfitta della guerra in Ucraina, come l’esplosione di una centrale nucleare o un crollo dell’economia cinese. L’unica variante scartata da tutti è quella di un cambio di regime dopo elezioni oneste e aperte a una vera concorrenza, ciò che sembra del tutto improbabile per la Russia, ma non è tanto sicuro ormai neppure in Occidente.

 

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