Il patriarca Raï nel Kurdistan, per il futuro dei cristiani e la lotta agli islamisti
Beirut (AsiaNews) - Il patriarca maronita, card Béchara Raï, giunge oggi a Erbil, capitale del Kurdistan irakeno, per una visita lampo di un giorno, volta a portare la solidarietà e la vicinanza umana ai cristiani cacciati dalle loro case e privati dei loro beni dai pirati con la bandiera nera dello Stato islamico (ex Isis-Daech, Stato islamico dell'Iraq e del Levante). Il patriarca è accompagnato da una delegazione composta da personalità di primo piano civili e religiose, oltre che dai patriarchi orientali cattolici e ortodossi Gregorio III dei melchiti, Efrem II dei siro-ortodossi e Youssef II Younane, dei siro-cattolici. Ad attenderli sul posto vi è il patriarca dei caldei Mar Louis Raphael I Sako. Imponenti le misure di sicurezza, nel timore di violenze perpetrare da cellule sinora dormienti - ma presenti - della galassia islamista.
A Erbil, i patriarchi saranno ricevuti in udienza dal presidente della regione del Kurdistan, Massoud Barzani, che ringrazieranno per l'accoglienza riservata alle vittime del grande esodo. Questo sarà il primo di due momenti centrali della loro visita. Secondo le stime, le famiglie cacciate dalle città e dai villaggi della piana di Ninive hanno contribuito a raddoppiare il numero dei curdi di religione cristiana. Questi ultimi sarebbero circa 120mila, su una popolazione totale di circa 5 milioni.
La delegazione delle personalità religiose visiterà poi la sede dell'arcivescovado caldeo di Erbil, centro polivalente utilizzato per finalità logistiche, sociali, mediche e spirituali, per l'accoglienza dei cristiani dispersi. Fra quanti dormono ancora nei giardini pubblici o su due banchi della chiesa ravvicinati, o ancora quelli che hanno già trovato un tetto sotto cui dormire, saranno oggetto del secondo punto focale della visita del patriarca. Prima di tutto, si tratta di informarsi, di comprendere le loro necessità, per capire poi quali iniziative intraprendere per porre rimedio alla situazione.
Con tutta probabilità i patriarchi incontreranno anche l'inviato personale di Papa Francesco, il card Fernando Filoni, sul posto da alcuni giorni, e che proprio ieri ha consegnato una lettera di Francesco al presidente irakeno, Fouad Massum. Una conferenza stampa chiuderà la giornata del patriarca Raï, che risalirà sull'aereo verso le 6 di sera per rientrare in Libano.
"Partire, partire, lasciare l'Iraq" è una delle ossessioni dei profughi di Mosul, ai quali Londra, Berlino, Parigi e Stoccolma hanno già aperto le loro braccia interessate. "Armarsi, armarsi" è quella di certi altri. "Restare, testimoniare, ricorso alla forza internazionale" è quella delle Chiese orientali.
In realtà, l'idea comincia a prendere piede, in particolare dopo la dichiarazione del Pontefice, durante il suo viaggio di rientro dalla visita apostolica in Corea del Sud. Parlando con i giornalisti a bordo del volo papale, Francesco ha affermato che "è lecito fermare l'aggressore ingiusto". Egli era anche sul punto di fare scalo a Erbil, ma ciò avrebbe comportato ignorare Baghdad e per questo il Vaticano ha esitato.
In ogni caso, il tema del ricorso legittimo alla forza - o della legittima difesa - prende sempre più piede nei discorsi dei responsabili delle Chiese orientali e occidentali. Per il capo della Chiesa cattolica, è tuttavia chiaro che tocca alle Nazioni Unite, e non agli Stati Uniti, il compito di decidere ciò che va fatto, per dissuadere l'aggressore. È dunque un processo internazionale - e per questo spesso lento e macchinoso - che la Chiesa cattolica auspica in Iraq, senza pronunciarsi in modo positivo né negativo sui bombardamenti aerei americani, che hanno permesso ai peshmerga curdi di fare progressi, anche se in modo difficoltoso, nella piana di Ninive e attorno alla diga sull'Eufrate.
Questo punto solleva, a sua volta, alcuni interrogativi fra i quali il primo è sapere se esiste davvero un piano finalizzato alla partizione dell'Iraq. Per gli esperti, è proprio questa la chiave di volta. La durata dei bombardamenti aerei degli Stati Uniti e la loro intensità diranno se gli Stati Uniti sono solo intenzionati a proteggere la frontiera del Kurdistan, o se la sorte di diverse dozzine di migliaia di cristiani, e il tessuto sociale irakeno, sono anch'essi fonte di interesse per Barack Obama. In molto ambienti si sussurra che se i bombardamenti americani fossero iniziati una settimana prima, forse i cristiani di Qaraqosh sarebbero ancora nelle loro case.
Un ultimo punto che emerge, o piuttosto viene accentuato, dalla visita del patriarca è quello del rapporto con l'islam e del dialogo interreligioso. Passati i primi momenti di stupore, alte autorità musulmane in Egitto e in Arabia Saudita, incalzati da domande ricorrenti sull'argomento, hanno condannato l'islam fanatico di cui lo Stato islamico mostra il volto più antico e disumano. Tuttavia, secondo alcune personalità cristiane impegnate nel dialogo questo non basta più. Il problema risiede nell'esistenza stessa di un simile modello, e nel suo essere possibile. Secondo loro, per dare frutti questo dialogo deve essere preceduto da un altro dialogo, all'interno dello stesso mondo musulmano. È necessario che l'islam si liberi - e in tutta fretta - di pratiche appartenenti a un'altra epoca, che gli sono state affibbiate da un mondo che osserva in qualità di spettatore inorridito. Ecco dunque una delle implicazioni future del periodo tragico della storia del Medio oriente, e di cui l'Iraq è in questo momento il palcoscenico. Un Iraq in cui è stata violata la natura intima dell'essere umano, e dove non è dato sapere al momento come sarà possibile riparare a questa ingiustizia.
25/08/2014