14/05/2022, 09.00
MONDO RUSSO
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Il passato e il futuro del Donbass

di Stefano Caprio

Al di là delle effettive riconquiste militari, e delle distruzioni nei centri abitati, fino a che punto la popolazione delle cosiddette “repubbliche indipendenti” desidera riunirsi alla Russia?

Il ministero russo della difesa ha annunciato nei giorni scorsi che le armate russe, insieme ai separatisti dell’autoproclamata repubblica di Lugansk, sono arrivate fino ai confini della regione. Finora non si hanno conferme positive di questo annuncio, e l’avanzata russa nel Donbass (dove i separatisti controllavano circa il 30% del territorio prima dell’invasione) si è sviluppata finora molto lentamente; gli stessi ucraini promettono che saranno loro ad arrivare fino ai confini russi, nella controffensiva in queste zone.

Durante la parata del 9 maggio Putin si era rivolto ai soldati russi e alle “milizie del Donbass”, paragonando queste ultime alle guardie dell’antico principe Vladimir Monomakh, l’ultimo capace di riunire le anime della Rus’ di Kiev nel 1125 prima delle invasioni asiatiche, e alle truppe del leggendario generale Suvorov, il “generalissimo” settecentesco che arrivò fino al Piemonte, glorificandoli per “l’eroica resistenza all’operazione punitiva dei nazisti che si stava preparando”, anche qui senza alcuna specificazione. Pur senza nominare il nome maledetto “Ucraina”, il leader che molti russi oggi chiamano “Putler” ha ricordato nel discorso la regione del “bacino del Donets” (significato di “Donbass”) per ben sei volte.

Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, aveva più volte precisato che lo scopo dell’operazione militare speciale è quello di reintegrare le due repubbliche nei confini del 2014, “fissati nelle costituzioni delle repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk”, approvate nei referendum indipendentisti a maggio di quell’anno, riconquistando quindi il 70% dei territori. In questo angolo di terra detto anche il “bacino del carbone” (come quello siberiano del “Kuzbass”, altra zona carbonifera), la disputa sui confini va avanti in realtà da tempi immemorabili: su di essi hanno avanzato pretese l’antica Grecia, la Moscovia, il regno di Polonia-Lituania, il khanato dei tatari di Crimea e altri ancora. I padroni originari erano i sarmati, e poi i cosiddetti circassi, originari dell’Asia centrale, detti anche kazaki, “uomini liberi” da cui sono poi nati i cosacchi del Don, che di anno in anno spostavano il loro accampamento principale, la Seč, sui vari isolotti del grande fiume e dei suoi affluenti come appunto il Donets, per sfuggire agli assalti dei tanti nemici.

Solo alla fine del XVIII secolo la zarina Caterina II la Grande (uno dei modelli di Putin) era riuscita a integrare il Donbass nell’impero russo, e il suo favorito-comandante Grigorij Potëmkin aveva iniziato un trasferimento di massa di contadini dalla Russia centrale, chiamando proprio questa zona Malorossija, la “Piccola Russia”, il titolo poi dato all’intera regione ucraina, ma anche Novorossija, la “Nuova Russia”. Lo stesso Donbass ha un’estensione variabile, da quella limitata alle provincie di Lugansk e Donetsk fino al “grande Donbass” che si estende da Khar’kov a Mariupol, proprio le zone del conflitto attuale.

I flussi migratori nella regione si sono succeduti a varie riprese, finchè a metà dell’800 è iniziata l’estrazione sistematica del carbone, per sostenere l’industria pesante e soprattutto la costruzione delle nuove linee delle ferrovie. Il centro metallurgico principale, dove si costruivano i binari ferroviari, fu aperto dal commerciante britannico John Hughes e concentrato in un villaggio poi cresciuto a dismisura, che dal nome originario di Juzovka (dalla trascrizione russa di Hughes – Juz) fu poi rinominato Stalino negli anni ’20, e Donetsk nel 1961 dopo la destalinizzazione. Molti operai si trasferivano qui per gli alti guadagni che si garantivano, e molti andavano a spenderli a Khar’kov, la grande città più vicina.

Prima della rivoluzione, il Donbass era uno dei principali centri industriali della Russia. A febbraio del 1918 qui era stata formata la repubblica socialista di Donetsk-Krivoj Rog, ma era rimasta in vita soltanto un mese, per poi essere invasa dai tedeschi. Dopo la guerra civile tra rossi e bianchi (1918-1920), i sovietici soppressero tutte le realtà indipendenti dell’Ucraina rivoluzionaria, e inserirono il Donbass nella repubblica socialista sovietica dell’Ucraina, allo scopo di garantirne la russificazione, come in seguito fece Khruščev con la Crimea, e di questo Putin si è pubblicamente lamentato molte volte, incolpando Lenin di avere “inventato l’Ucraina”, che oggi va cancellata dalla storia.

In realtà, nei manuali russi di geografia e letteratura di prima della rivoluzione, queste zone erano assegnate alla Malorossija, e in essa erano comprese anche città oggi in Russia come Taganrog, Bogučar e Rostov sul Don, le tradizionali località dei cosacchi. Anche in tutti i censimenti del periodo sovietico e dell’ultimo trentennio (l’ultimo nel 2001) la grande maggioranza della popolazione del Donbass si dichiarava di “nazionalità ucraina”, pur parlando prevalentemente il russo, con inflessioni dialettali locali.

Al di là delle effettive riconquiste militari, e delle distruzioni nei centri abitati, la questione oggi è proprio questa: fino a che punto la popolazione di queste cosiddette “repubbliche indipendenti” desidera riunirsi alla Russia? Molti hanno vissuto come un trauma la fine dell’Urss, che garantiva stabilità e protezione anche a livello delle proporzioni etniche, ma la nostalgia del passato sovietico stava ormai scemando, come mostrava un sondaggio del 2013, in cui appena la metà esprimeva ancora il dispiacere per la perdita della passata grandezza. È vero che molti auspicavano un “governo forte”, e prima ancora dell’Euromaidan si manifestavano preoccupazioni per la pressione dei “banderovtsy”, gli ucraini occidentali legati alla memoria del collaborazionista dei nazisti, Stepan Bandera.

Si è così imposta la questione della “ucrainizzazione” del Donbass, quella che Putin chiama la “nazificazione”, e il patriarca Kirill addirittura il “genocidio” della popolazione russa locale. A Donetsk e Lugansk, in effetti, i cittadini russofoni avevano chiesto più volte di accordare alla lingua russa lo status di “lingua nazionale” accanto all’ucraino, ma soltanto nel 2012 era stato deciso di considerarla “lingua regionale” alla stregua del romeno e dell’ungherese delle regioni di Černigov e Zakarpat’e. I cittadini locali avevano quindi il diritto di parlare russo in ogni ambiente, compresa la scuola e il lavoro; accanto alla scuola pubblica, dove si usava sia il russo che l’ucraino, non mancavano scuole private integralmente russofone.

Dopo la rivoluzione del Maidan e la fuga del presidente filo-russo Viktor Janukovič, la Verkhovnaja Rada (il parlamento di Kiev) soppresse lo “status regionale” di tutte le lingue diverse dall’ucraino, ma il presidente ad interim Aleksandr Turčinov pose il veto alla soppressione. Questo non impedì il diffondersi della sensazione di conflitto etnico interno in tutto il Paese, e soprattutto tra i quasi sette milioni di abitanti del Donbass, anche se non furono molti a esprimere apertamente la preoccupazione per la “imposizione della lingua nazionale”. In seguito, l’infiltrazione di volontari e mercenari russi diede inizio alla “guerra ibrida”, in cui la questione linguistica venne usata come bandiera da sventolare per la “liberazione” dei territori.

Il Donbass non è mai stato in realtà una terra così altamente simbolica come la Crimea, dove si erano battezzati il principe Vladimir e la nonna Olga agli albori della Rus’, in quella Chersoneso dove poi i russi hanno costruito la roccaforte di Sebastopoli. Putin ha esaltato la “civilizzazione russa” di queste terre, in cui anticamente si aggiravano i “nomadi asiatici” da lui paragonati alle pandemie recenti. Qui si svolse l’epica battaglia ricordata nel capolavoro della letteratura medievale della Rus’ di Kiev, il “Canto della schiera di Igor”, in cui il principe viene esaltato per la gloriosa sconfitta in difesa del popolo e della fede ortodossa, sovrastato dai barbari peceneghi e polovtsy nel 1185. Pochi anni dopo, nel 1223, vi fu la prima calata dei tataro-mongoli nella rovinosa battaglia del fiume Kalka, nei pressi di Mariupol, da cui poi invasero e rasero al suolo tutta la Rus’. Otto secoli dopo, si rinnova la domanda sul futuro del Donbass, e di tutte le Russie.

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