Il nuovo Medioevo della Russia e del mondo
La grottesca e tragica Russia descritta nel 2006 da Vladimir Sorokin nel romanzo "Il giorno del gendarme" presenta l’anima tormentata di un Paese che è sempre il primo nemico di sé stesso, e per questo ha bisogno di sentirsi in guerra con tutti gli altri. Sembra quasi che i capi politici e religiosi della Russia attuale sentano il dovere di confermare nei fatti gli incubi della letteratura.
La prima volta che mi recai a Mosca era il 1986, all’inizio della perestrojka gorbacioviana. Ero diventato sacerdote da poco, e negli anni precedenti ero stato a Leningrado, dove si potevano fare incontri appena più liberi rispetto all’oppressiva capitale di fine impero. Quell’anno con alcuni amici ci arrischiammo ad andare a Mosca, perché ci dissero che si poteva incontrare il mitico padre Aleksandr Men’, il “cappellano del dissenso” e primo ispiratore della rinascita religiosa, già prima della caduta del muro di Berlino.
Ci sistemammo per alcuni giorni nell’albergo Inturist, un obbrobrioso grattacielo a pochi passi dal Cremlino, poi abbattuto come simbolo della fine del totalitarismo. Sorgeva accanto alla piazza Puškin, luogo storico delle grandi manifestazioni, dai funerali di Stalin ai raduni dei dissidenti, al centro della corona dei boulevard, dove i moscoviti vanno a passeggiare in centro. Lì ci si poteva rifocillare ad un gigantesco ristorante self-service, dove servivano frettolosamente pietanze locali in piatti e stoviglie sommariamente ripulite. Non mi fidavo delle zuppe russe di cavoli, carne e patate, che poi imparai ad apprezzare nelle case delle pie babuške che frequentavano le poche chiese ortodosse aperte, e poi anche quelle cattoliche che riuscimmo a riaprire. Ordinai un piatto di “carne con gli spaghetti”, quanto di più vicino alle mie abitudini segnato sul menu, e mal me ne incolse: accanto a un blocco di manzo indigesto c’era una decorazione di spaghetti mollicci e annodati tra loro, cosparsi di marmellata di fragole. Vidi la distanza gastronomica tra Oriente e Occidente.
Quattro anni dopo vivevo a Mosca ufficialmente come cappellano dell’ambasciata d’Italia, e mi unii in piazza Puškin alla folla esultante per la sostituzione della mensa sovietica con la prima sede di McDonald’s, code di ore per panini e patatine che in realtà non sono molto migliori degli spaghetti alle fragole, ma sembravano l’inizio di un mondo nuovo. Al McDonald’s passavamo le ore a discutere con i giovani della religione, della cultura e dello sport, e nessuno pensava che si potesse tornare al grigiore del mondo precedente. Oggi il sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin, promette che entro un anno i McDonald’s abbandonati verranno sostituiti da “reti di ristorazione patriottica”, certo molto più gustosi del rancio di un tempo, ma nella malinconia di una nuova distanza siderale tra gli spaghetti e i cavoli, tra i giovani e i vecchi, tra i credenti e i laici: due mondi che non si incontreranno più per chissà quanti anni.
Nel 2006 uno scrittore russo contemporaneo aveva intuito come sarebbe andata a finire, e lo descrisse nel romanzo distopico “Il giorno del gendarme” (Den Opričnika), oggi diventato quanto mai “topico” e attuale. Vladimir Sorokin racconta in questo libro la giornata-tipo di Aleksandr Komjaga, il gendarme opričnik che ha il compito di mantenere la popolazione nella fedele sequela dello stile di vita “morale” e patriottico, metafora già allora dell’ideologia “metafisica” del putinismo di oggi, per usare un’espressione di questi giorni del patriarca di Mosca Kirill. La Opričnina era la “guardia imperiale” creata da Ivan IV il Terribile nel 1560, quando dopo un periodo di riforme lo zar si era avviluppato in un’ossessione politico-militare, convinto che tutto il mondo fosse in guerra con la Russia, una guerra anche religiosa, perché egli era l’unico difensore della vera fede. Impressiona l’analogia con le azioni e le parole attuali di “Putin il Terribile”, che minaccia il mondo per difendere la purezza della Russia, e per questo assale l’Ucraina proprio come Ivan si mise a combattere contro i popoli baltici.
Sorokin descrive un ipotetico gendarme della metà del XXI secolo, al servizio del Gosudar, il nuovo zar Nikolaj Platonovič che ha restaurato la vera Russia, erigendo nuovi muri a Occidente e a Oriente per “escludere l’estraneo da fuori, e soffocare il diavolo all’interno”. Appena si sveglia deve anzitutto occuparsi di “schiacciare gli scarafaggi”, cioè andare a prendere tutti i recalcitranti, i disobbedienti e gli eccentrici, bruciare le loro case e appenderli a qualche colonna per strada, a scopo dimostrativo. Quindi deve organizzare spettacoli di maschere russe, per allietare e distrarre la popolazione, in modo che non pensino a cose spiacevoli. Poi prende un aereo supersonico e da Mosca vola a Tobolsk in Siberia, per consultare la veggente Praskovja, principale consigliera del Gosudar. Komjaga compie in un solo giorno altre missioni di consolidamento della pubblica morale e prevenzione di ogni minaccia interna ed esterna, per tornare a Mosca a cenare con la moglie del Gosudar a base di piatti esclusivamente russi, e infine rilassarsi nella sauna con gli altri opričniki, ubriacandosi e sfogandosi stuprando insieme giovani donne, così che ricordino la superiorità dei veri maschi.
La grottesca e tragica Russia di Sorokin riproduce descrizioni di tanti scrittori e poeti del passato, che presentano l’anima tormentata di un Paese che è sempre il primo nemico di sé stesso, e per questo ha bisogno di sentirsi in guerra con tutti gli altri. Sembra quasi che i capi politici e religiosi della Russia attuale sentano il dovere di confermare nei fatti gli incubi della letteratura, e da essi prendano spunto per i discorsi aggressivi e i messaggi solenni che accompagnano la terribile “operazione militare speciale” di questi giorni, tanto incomprensibile agli occidentali quanto agli stessi russi. Nulla infatti appare più simile a una guerra contro sé stessi, dell’invasione della terra da cui ha avuto origine il proprio popolo.
Le spiegazioni di Putin rileggono la storia in chiave fantastico-leggendaria, rievocando le origini comuni dei russi, degli ucraini e dei bielorussi assieme alle contraddizioni del Novecento sovietico, come se fossero eventi contemporanei e tra loro collegati. Ancor più paradossali appaiono i sermoni psichedelici del patriarca Kirill, che invoca la guerra contro le “parate gay” come i monaci medievali esortavano lo zar a sterminare i sodomiti e gli agareni, i pericoli della vera fede e della terra salvifica universale. Il mercoledì 9 marzo era il primo dei giorni di Quaresima in cui nella Chiesa ortodossa si celebra la Liturgia dei Doni Presantificati, un rito senza la Messa per ricordare il digiuno e la Passione di Cristo, comunicandosi al pane della precedente domenica. Kirill l’ha presieduta indossando i paramenti neri e invitando a pregare “per essere liberati dalla schiavitù in cui siamo sprofondati… c’è chi diffonde la menzogna e stravolge i fatti, da questo gli uomini diventano nemici, e a volte i conflitti esplodono per l’intromissione di un terzo estraneo, che vuole mettere i fratelli l’uno contro l’altro”.
Il diavolo “padre della menzogna” è il vero autore della guerra tra russi e ucraini, spiega il patriarca, che “ha trovato il modo di dividerci, noi che siamo un unico popolo, legati da un destino storico, scaturito dal fonte battesimale di Kiev… la Rus’ è un unico Paese, un unico Popolo, che i vicini per paura della sua forza hanno cercato di dividere”. Kirill arruola tra i servi del demonio anche “certe organizzazioni religiose” per cui “la lingua si rifiuta di chiamarle religiose”, le quali “innalzano sullo scudo delle loro prediche la necessità di combattere contro il popolo russo”. È una guerra santa di religioni, in cui i russi assommano agareni e greco-cattolici, evangelici e sciamani mongoli in una visione apocalittica di avvento dell’Anticristo, a cui solo la Santa Russia può resistere per la salvezza del mondo.
Alcuni chiamano Kirill lo Z-patriarca, intendendo la Z del sostegno alla guerra di Putin, la nuova svastica dello slogan Za pobedu!, “Per la vittoria!”, e della operazione militare “Z”, cioè contro il Zapad, l’Occidente schiavo del demonio. Prima ancora è stato insignito di questo titolo lo Z-metropolita, il “padre spirituale” di Putin, Tikhon (Ševkunov), oggi metropolita di Pskov. La sua predica quaresimale è stata tutta improntata alla descrizione del quadro geo-politico, come sua abitudine (qualcuno dice che proprio Tikhon sia uno dei principali autori dei discorsi di Putin), per concludere che “anche se siamo costretti a compiere azioni pesanti per noi, prima ancora che per loro, non dobbiamo in alcun modo venir meno al nostro amore per i fratelli ucraini, anche se essi ci guardano in modo ostile… tutto giungerà a compimento, alla riconciliazione e alla pace”. Anche il metropolita ha ricordato la storia comune dei russi e degli ucraini, “dai tempi arcaici a quelli sovietici”, finché nel 1991 “noi”, come egli sottolinea più volte, “abbiamo gratuitamente lasciato a loro i nostri beni e le nostre tecnologie, per conservare le buone relazioni tra vicini e fratelli”.
Sono gli ucraini i veri aggressori, afferma Tikhon, che hanno “permesso la formazione di partiti neo-nazisti” e hanno cominciato a “rileggere la propria identità e la propria storia in modo completamente diverso”. Ma “noi non abbiamo obiettato, neanche quando dicevano di voler entrare nell’Unione europea”, quando poi gli “ispiratori esterni” hanno organizzato il colpo di Stato del 2014 e “hanno messo i nazisti al potere”. Bisogna proteggere la Russia, conclude il metropolita, ma soprattutto gli stessi ucraini ingannati dai diavoli, “e non da ora, ma dalla metà del XIX secolo”, quando appunto nacque l’ideale della nazione ucraina ispirata da poeti e scrittori, anch’essi evidentemente al soldo dell’Occidente. Nell’omelia Tikhon commenta anche questioni strategiche e militari, come fosse un portavoce del Cremlino, per concludere che “noi restaureremo la giustizia di Dio sulla terra”.
Le parole del patriarca e del metropolita, insieme ad altre espressioni di esponenti del clero russo, non incoraggiano certo papa Francesco a confermare l’annunciato incontro di quest’anno con Kirill, che dovrebbe avere luogo in estate. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, è stato costretto ad ammettere che “queste espressioni minacciano di aumentare ulteriormente l’escalation verso un conflitto sempre più grave”. Tra tante cose che si perdono in questi giorni, si interrompe anche la collaborazione tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa cattolica, che dopo lo storico incontro dell’Avana nel 2016 aveva generato importanti progetti umanitari, culturali e spirituali comuni.
Dopo la rivoluzione sovietica, nel periodo tra le due guerre mondiali, furono espulsi dalla Russia molti intellettuali, imbarcati nel 1922 nella cosiddetta “nave dei filosofi”, tra cui c’era il grande interprete di quel tempo, il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, che per un ventennio divenne il principale punto di riferimento di tutti gli intellettuali di Parigi. Egli seppe indicare a tutti la via per superare il dramma di quegli anni, tra guerre e rivoluzioni, con una famosa conferenza in cui parlò del “nuovo Medioevo”, la nostalgia del passato che costringe a riscrivere il futuro. Oggi siamo di nuovo a questo punto, con la Russia che torna agli spaghetti alle fragole, e l’Occidente che non sa come impedire una tragedia che potrebbe colpire l’economia, la sicurezza e la vita stessa dell’intera popolazione mondiale. Diceva allora Berdjaev:
“Nella storia, come nella natura, esistono dei ritmi, una successione ritmica di epoche e di periodi, una turnazione di tipi culturali, di approdi e di partenze, di elevazioni e crolli. La ritmicità e la periodicità sono tipiche di tutte le epoche. Si parla di epoche critiche ed organiche, di epoche notturne e diurne, sacrali e secolari. A noi è stato dato di vivere nel tempo storico del cambio tra le epoche”.
Tocca a noi, soprattutto ai più giovani, pensare all’epoca del futuro. Inizia il nuovo Medioevo, la terra di mezzo tra il Novecento dei buoni e dei cattivi, e il Duemila dei nuovi sconvolgimenti. Nel secolo scorso la guerra mondiale scoppiò qualche anno prima, non facciamola scoppiare adesso.
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