Il "mattatoio" Daghestan non è la Cecenia
Mosca (AsiaNews) – Il Caucaso del nord continua a essere in fiamme. E nella regione, è il Daghestan la repubblica su cui Mosca sta concentrando i suoi maggiori sforzi di anti-guerriglia. L’attentato dello scorso 24 settembre nella capitale Makhachkala, dove un kamikaze ha ferito 42 persone tra poliziotti e civili, è solo l’ultimo episodio che ha insanguinato la turbolenta zona. La caccia ai terroristi, intensificata dalle forze di sicurezza russe dopo le bombe di marzo alla metro di Mosca, ha scatenato la rappresaglia dei guerriglieri trasformando la zona in un mattatoio quotidiano. Ma non è solo con la forza che Mosca può pensare di risolvere il rischio polveriera.
Istituzioni e polizia nel mirino
Il Daghestan, la più grande repubblica del Caucaso del nord, si trova nell’epicentro delle violenze scatenate dai ribelli, che hanno spostato le loro operazioni dalla Cecenia alle zone limitrofe. Quello degli attentati dinamitardi è il mezzo più utilizzato e i funzionari delle autorità locali e i poliziotti sono gli obiettivi principali. Il kamikaze che nella notte del 24 settembre si è fatto esplodere a Makhachkala aveva come obiettivo un’area circondata dagli agenti, teatro poco prima di uno scontro a fuoco con i guerriglieri. Nella stessa giornata del 24, un commando armato aveva ucciso il preside di una scuola e c'erano stati 12 morti in una serie di sparatorie. Il 4 settembre, era stata la volta del ministro per la Politica nazionale, le relazioni estere e l'informazione del Daghestan, Bekmurza Bekmurzaiev, rimasto ferito in seguito a un attentato che ha invece ucciso il suo autista. Il 2 settembre, invece, un dirigente locale dei servizi segreti russi (Fsb), il colonnello Akhmed Abdullaiev, è stato ucciso dall’esplosione di una bomba piazzata sotto la sua auto.
Le violenze nella repubblica caucasica hanno avuto una forte spinta in avanti dallo scorso 23 agosto, quando una serie di attacchi ha provocato la morte di una guardia di frontiera, mentre il vicesindaco di Kizlyar, Vasily Naumochkin è stato investito da una scarica di proiettili sparata da uomini armati che lo attendevano fuori dal palazzo comunale.
Il 6 settembre, lo stesso ministero russo degli Esteri arriva ad ammettere che nel Caucaso settentrionale la situazione “sta degenerando”.
Covo dei guerriglieri
Il Daghestan è diventato covo privilegiato per i guerriglieri islamici in fuga dalla più controllata Cecenia. Lo scorso 21 agosto è stato ucciso Magomedali Vagabov, l’uomo ritenuto la mente del doppio attentato suicida nella metropolitana di Mosca. Insieme a lui sono stati eliminati anche altri quattro ribelli. Le forze anti-terrorismo russe li hanno scovati nei pressi del villaggio di Gunib, sulle montagne del Daghestan. Ma nelle operazioni anti-guerriglia sono spesso i civili a rimetterci. Nei rastrellamenti operati dai russi nei villaggi caucasici in cerca di terroristi finiscono per essere arrestati e torturati anche cittadini innocenti, come denunciano da tempo Ong e attivisti per i diritti umani in Caucaso.
Ma il Daghestan non è la Cecenia
Per Mosca è vitale far in modo che la situazione non degeneri. Il Daghestan rappresenta una zona di grande importanza strategica ed economica per la Russia: confina con l’eterna nemica Georgia e con i giacimenti di gas dell’Azerbaijan. Makhachkala, inoltre, è uno dei pochi porti russi liberi dal ghiaccio tutto l’anno.
Comprendere, però, le cause che hanno trasformato questa repubblica in una bomba a orologeria non è semplice. Gli stessi media in Russia si limitano a registrare scontri e attentati, ma difficilmente il dibattito mainstream analizza le reali ragioni delle violenze come avveniva per la Cecenia. Il fatto è che il Daghestan è più complesso. Negli anni ’90, in Cecenia c’erano nemici ben definiti: i separatisti. Le loro azioni, la loro ideologia era ben conosciuta e studiata. Ma in Daghestan né allora, né oggi ha mai attecchito un vero movimento separatista: è stata l’unica repubblica del Caucaso settentrionale a non chiedere l’indipendenza dopo il crollo dell’Urss e il partito di Indipendenza nel Paese è relegato a un ruolo marginale.
Anche la diversità etnica non è un fattore che può spiegare l’instabilità del Daghestan: negli anni ’90 rappresentò una minaccia all’unità di questa repubblica, che visse periodi di violenze e terrorismo. Ma fu lo stesso governo a impedire una trasformazione del Paese in una seconda Cecenia.
Il fattore che, invece, sta giocando un ruolo sempre maggiore nella repubblica caucasica è quello islamico. Chi oggi promuove la cosiddetta “rinascita dell’islam” (che qui è presente nella corrente salafita, ndr), appartiene a diversi gruppi etnici accomunati dalla fede nell’islam salafita. Questi fanno proseliti tra la gente, promuovendo giustizia sociale e lotta alla corruzione. Offrono una nuova alternativa a una società delusa dall’esperienza sovietica e da quella democratica posto-sovietica.
A differenza della Cecenia, le attività di rivolta e dissidenza verso Mosca nascono in ambienti variegati: etnico, religioso, mondo degli affari e nello stesso governo locale. In un attentato il movente può essere la “privatizzazione” di proprietà statali, mentre in un altro l’estremismo islamico. Tra le fila dei guerriglieri islamici non si trovano solo fanatici religiosi, ma anche cittadini vittime della corruzione o della tirannia delle autorità.
La sfida principale che Mosca deve affrontare - nota l’esperto di Caucaso russo, Enver Kisriev – è garantire un giusto sviluppo al Daghestan e a tutto il Caucaso settentrionale. In un contesto dove istituzioni e giustizia sono in mano a un’oligarchia corrotta, la gente è costretta a ricorrere alla violenza come mezzo per risolvere anche questioni più banali.
I giovani, inoltre, non hanno alcuna prospettiva futura: non esiste un meccanismo che garantisca una giusta mobilità sociale attraverso l’istruzione e così “i ragazzi finiscono per essere facile preda degli jihadisti”.