Il duro autunno economico del “dopo-Olimpiadi”
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La Cina ha speso oltre 29 miliardi di euro e impegnato 7 anni per le Olimpiadi. Ora che si constata che hanno trainato “poco” l’economia, tutti si chiedono cosa avverrà dopo il 24 agosto, spenta la fiamma olimpica, a un’economia cinese che ha rinviato a “dopo” i Giochi l’affronto di problemi strutturali.
I miliardi spesi per le opere dei Giochi costituiscono meno dell’1% della spesa 2007 per strade, ponti, fabbriche, e hanno beneficiato soprattutto Pechino, che rappresenta il 3,6% dell’economia nazionale. Seppure per pochi anni, le Olimpiadi hanno creato a Pechino 1,5 milioni di posti di lavoro, per la gran parte a salariati migranti, già cacciati dalla città, che potranno essere “assorbiti” in futuro in altri progetti, come l’Expo di Shanghai del 2010, bisognosa di lavoratori a basso prezzo.
I crescenti costi di lavoro, energia, materie prime e il rafforzamento dello yuan mettono in difficoltà le grandi imprese specie quelle del Delta del Fiume delle Perle, a sud, abituate a invadere i mercati esteri grazie ai bassi prezzi dei prodotti. In apparenza l’economia cinese è solida: il prodotto interno lordo è cresciuto dell’11,9% nel 2007 e si prevede avanzi del 9,9% nel 2008.
Ma l’export è aumentato “solo” del 22% nei primi 6 mesi del 2008, rispetto al +28% del primo semestre 2007, e i profitti per le imprese sono cresciuti del 21% nei primi 5 mesi del 2008: la metà del 2007. Soprattutto: la borsa di Shanghai ha perso il 60% da ottobre 2007, dopo che era cresciuto del 130% nel 2006 ed era raddoppiata nel corso del 2007. Oggi ha ceduto un altro 2,6% per le perdite dei settori bancario e immobiliare, che pure per anni hanno garantito profitti notevoli; dall’inizio dei Giochi essa ha perso oltre il 10% , segno che non c’è fiducia in un’ulteriore espansione: nella zona centrale di Pechino, ad esempio, sono sfitti almeno un terzo degli uffici.
Certo, ciò dipende anche dal rallentamento dell’economia mondiale, specie degli Stati Uniti che, ad esempio, negli anni scorsi hanno comprato circa il 40% dei 15,6 miliardi di euro di mobilia esportata: ora i produttori cinesi lamentano che gli ordini diminuiscono o, addirittura, molti importatori non pagano con regolarità.
Wang Yiming, vicedirettore della Commissione per lo sviluppo nazionale e la riforma, organo leader per la macroeconomia, osserva che “le basi dell’economia [cinese] non cambieranno dopo le Olimpiadi”, perché la produzione del Paese è tale che l’intero sforzo olimpico ne ha costituito solo una frazione. Ma il problema è che ora lo Stato non potrà più rinviare l’affronto di problemi strutturali.
Lo Stato vende petrolio ed energia sottocosto, tiene stabili i prezzi di molte materie prime e pratica una politica di sussidi ed esenzioni fiscali alla produzione. Tutti ritengono che lo ha fatto anche per contenere l’inflazione ed evitare proteste prima dei Giochi, ma non può proseguire. Proprio oggi la State Grid Corp. of China, maggiore delle 2 ditte statali monopoliste della fornitura energetica regionale, ha chiesto un aumento delle tariffe dell’energia, facendo presenti i forti costi: 73,6 miliardi di yuan (7,36 miliardi di euro) solo per il ripristino della rete di distribuzione elettrica dopo le tempeste di neve di gennaio; investimenti previsti di 1,2 trilioni dal 2006 al 2010 per coprire la crescente richiesta. Anzi, la ditta chiede che sia “introdotto un sistema scientifico e stabile per adeguare i prezzi dell’energia e di lasciarne la determinazione alle scelte di distributori e consumatori per assicurare un sano sviluppo dell’industria”. Del tutto insufficiente è l’aumento medio deciso ieri da Pechino di 2 fen (centesimi di yuan) per chilowattora (pari al 5,3%), che diventa di 2,5 fen in zone come Shanghai, Guangdong, Zhejiang dove maggiore è il costo del carbone. Esperti, come Li Xiaolin vicepresidente della China Power International Development, dicono che ci vorrebbe un aumento ben più che doppio, solo per coprire i recenti aumenti del costo del carbone.
Ieri Wang Huisheng, presidente della State Development and Investment Corp., maggiore holding statale, ha annunciato l’intenzione di Pechino di vendere a privati le partecipazioni “non strategiche” in molte aziende statali, vendita che presuppone che le ditte seguano le leggi di mercato e producano in attivo: si parla di trasporti, infrastrutture e agricoltura, meno probabile per energia e risorse naturali.
Un aumento di prezzi di energia e carburante e l’eliminazione dei prezzi imposti per alimenti e materie prime rinforzerebbe però l’inflazione, già elevata, con conseguente necessità di incremento dei salari, in una spirale pericolosa. L’inflazione per i prezzi al consumo, giunta all’8,7% a febbraio, è scesa a luglio al 6,3%, ma assai maggiore è l’aumento dei costi per la produzione (+ 10% a luglio), che le imprese dovranno presto traslare sui consumatori. L’inflazione spaventa i leader cinesi, consapevoli che la gran parte delle circa 80mila proteste di massa che ogni anno esplodono dipendono da malcontento per la situazione economica, che ha privilegiato le grandi ditte e gli interessi dei leader locali, a detrimento della popolazione minuta.
Per questo Pechino sa che occorre “ripensare” l’intero modello di sviluppo. (PB)