Il dissenso nella Russia di oggi
Dai "vecchio-credenti" ai samizdat il dissenso è sempre stato una caratteristica della società russa. E pur con tutta la forza della censura e della repressione messa in campo da Putin negli ultimi anni sta nuovamente emergendo “da sotto i massi”, secondo la famosa espressione di Solženitsyn.
Uno degli aspetti che più impressiona della Russia di Putin, nei lugubri giorni dell’assalto a Kiev, è la passività della maggioranza della popolazione russa, che a parte le proteste giovanili non esprime un reale dissenso rispetto alle scelte del suo leader. Perfino la Chiesa è molto restia ad esprimersi, e il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) non riesce ad andare al di là di generici appelli per la pacificazione delle “terre russe” discendenti dall’antico Battesimo di Kiev, avallando quindi implicitamente la lettura putiniana della storia che ha giustificato questa “operazione militare speciale”, che in Russia non è permesso neppure chiamare “guerra”.
La chiusura dell’associazione umanitaria “Memorial”, decisa negli ultimi mesi e confermata proprio nei giorni scorsi dalla Corte suprema di Mosca, sembra far scendere definitivamente il sipario sulla manifestazione organizzata del dissenso, che pure ha conosciuto una storia gloriosa in tempi almeno apparentemente ben più duri, nell’Unione Sovietica del terrore staliniano e della lunga stagnazione brezneviana.
Eppure la straordinaria libera creatività del movimento del samizdat, l’auto-editoria clandestina dei tempi sovietici, aveva saputo affermare una contro-cultura a tutti i livelli, non solo quella politico-sociale di Andrej Sakharov, uno dei fondatori di Memorial negli anni ’80, o quella storico-documentale dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženitsyn, per fermarci ai premi Nobel, a cui pure si può aggiungere l’altro premiato, il poeta Josif Brodskij, che non contestava il regime direttamente, ma chiedeva solo di scrivere liberamente delle poesie.
Il samizdat univa le generazioni, a partire dagli scrittori sopravvissuti ai lager e dai musicisti jazz del primo disgelo post-staliniano degli anni ’50, i cosiddetti stiljagi per lo “stile” americano dei capelli e dei vestiti. Era un dissenso musicale, artistico e religioso, un fervore di “seminari clandestini” in cui si discuteva di tutto, dai destini della Russia ai conflitti etnici e culturali dell’immenso Paese che voleva sottomettere il mondo intero all’ideologia ufficiale del Partito. La fine del comunismo ha significato di fatto anche la fine del dissenso, per mancanza di avversari e interlocutori, e oggi se ne vuole cancellare del tutto la memoria.
In verità, il dissenso è sempre stata una caratteristica della società russa, almeno nelle fasi dei suoi grandi cambiamenti. Senza inoltrarci nelle antiche dispute medievali, la Russia moderna ha vissuto le contestazioni religiose dei “vecchio-credenti”, che a metà del ‘600 non vollero accettare le riforme liturgiche imposte dall’alto, dal patriarca Nikon e dallo zar Aleksej, che volevano riportare le tradizioni religiose alla coerenza con le proprie origini. Gli scismatici sostenevano la superiorità delle usanze russe anche su quelle greche, e per questo venivano bruciati vivi, anzi molti di loro anticipavano le persecuzioni organizzando auto-roghi di massa. La fine della repressione dei vecchio-credenti arrivò solo con il decreto di tolleranza del 1905, per poi finire sotto il tallone dell’ateismo di Stato dopo la rivoluzione.
In quegli stessi tempi si radunarono le compagnie dei cosacchi, uomini liberi di etnia mista che non volevano sottomettersi alla schiavitù della gleba, e che insieme ai vecchio-credenti sono considerati i progenitori del dissenso russo. Del resto in quegli anni si formavano anche le squadre della polizia politica e religiosa, come la famosa opričnina di Ivan il Terribile nel ‘500, una guardia armata di cavalieri vestiti da monaci che non esitava a sopprimere anche i preti dissidenti come il metropolita di Mosca Filipp, che si era rifiutato di benedire lo zar “perché versava il sangue dei cristiani”.
Furono i cosacchi a inventare l’“Ucraina”, termine forgiato per indicare i loro territori “dei margini”, che fu consegnata alla Russia degli zar per sfuggire al potere dei re polacchi, dando origine al conflitto che oggi si rinnova proprio a partire dai quei territori del “basso Don” in cui essi stabilivano i loro accampamenti principali. Queste ed altre ispirazioni vennero poi rielaborate dai grandi scrittori russi dell’800, che scrivevano già in riviste clandestine e subivano la censura zarista, ma sapevano coinvolgere la società intera nelle dispute tra gli “slavofili” e gli “occidentalisti” per rispondere ad una sola grande domanda: qual è il destino della Russia, e come questo può cambiare il mondo intero?
Il campione degli slavofili, Fedor Dostoevskij, rispose che “la bellezza salverà il mondo”, mentre invocava una grande guerra salvifica che portasse la Russia a conquistare l’Europa, Costantinopoli e Gerusalemme per affermare la verità della fede cristiana. Il suo principale antagonista, l’occidentalista Lev Tolstoj, partecipò alla rovinosa guerra di Crimea per scoprire che nessun sogno di grandezza può giustificare l’odio e la distruzione, esponendo questa visione pacifista nel più grande romanzo della storia della letteratura, “Guerra e pace”, che tanto conviene rileggere in questi giorni. Tolstoj contrappose all’intransigenza ortodossa una sua religione umanista basata sulla non-violenza, su cui si formò il giovane Gandhi per poi realizzare la liberazione pacifica dell’immensa India.
Non mancano quindi ai russi i profeti del dissenso in tutte le epoche, e ci si aspetta che la loro ispirazione possa scuotere la popolazione dal lungo letargo putiniano, soprattutto di fronte a eventi drammatici ed epocali come quelli in corso. Il consenso del nuovo zar si è basato finora soprattutto sulla gratitudine per la stabilità ritrovata dopo le crisi degli anni ’80 e ’90, con la disgregazione dell’impero sovietico e il disorientamento degli anni della globalizzazione, quando i russi temevano di avere ormai perduto la loro identità.
È venuta poi l’epoca della grande riscossa, con una politica sempre più aggressiva nei confronti dei Paesi ex-sovietici più a rischio di “contaminazione occidentale” come la Georgia, la Bielorussia, la Moldavia e l’Ucraina. Il consenso è allora arrivato ai massimi livelli, quando al grido “la Crimea è nostra!” Putin sembrava essere davvero in grado di realizzare il grande sogno, riportare la Russia a guidare il mondo come dopo le vittorie su Napoleone e su Hitler. Poi è cominciato il declino, quando le crisi economiche che rimbalzavano per il mondo intero hanno cominciato a mettere in crisi il sistema sociale ed economico, a far venir meno le garanzie di stabilità e di sicurezza che rendevano la figura di Putin simile a quella dell’autentico “padre della patria”.
Ed ecco che sembrava risvegliarsi il dissenso: dal 2012, con il ritorno di Putin alla presidenza, sono cominciate le grandi manifestazioni di piazza contro la corruzione del regime degli oligarchi, contro le limitazioni alla libertà di stampa e di espressione, perfino contro il moralismo integralista della Chiesa ortodossa. La reazione è stata inizialmente tollerante, per divenire sempre più sistematica e asfissiante, e nel 2020 il regime si è ri-qualificato con la nuova Costituzione e i nuovi “principi ispiratori”: difesa delle tradizioni e delle istituzioni, cancellazione dei diritti delle fastidiose minoranze, bavaglio totale alla stampa ancora relativamente libera, fino appunto al divieto totale di pensarla diversamente dalla “versione ufficiale” come ai tempi di Stalin, e alla cancellazione e ri-settaggio della memoria collettiva.
Oggi gli agitatori delle proteste languono in prigione come Aleksej Naval’nyj o sono in esilio come Mikhail Khodorkovskij, che pure un decennio di lager lo ha scontato. Ogni forma di collaborazione con l’estero porta all’iscrizione nel registro infamante degli inoagenty, gli “agenti stranieri” che rischiano la condanna per estremismo e per tradimento della patria. Le confessioni religiose più passionali, come i Testimoni di Geova o i Battisti, sono anch’esse proibite e vessate in continuazione, per non parlare dei giornalisti che devono ringraziare la buona sorte se riescono almeno a rimanere in vita.
È venuta la grande pandemia, che in tutto il mondo ha imposto misure restrittive di ogni genere, e i russi hanno riscoperto l’orgoglio del dissenso nella forma no-vax, che è difficile tacciare di eresia o di tradimento, anzi si presenta come resistenza ai poteri mondiali ispirati dal diavolo, ottenendo spesso anche la benedizione dei preti. E ora è venuta la guerra fratricida, si direbbe un “classico” della storia russa, in cui si gioca tutto il sogno di grandezza e di redenzione universale della Russia.
L’istinto porta quindi molti russi a sostenere l’esercito e i comandanti, quasi un riflesso dell’inconscio per dimostrare al mondo che cos’è davvero la Russia. Essere soli contro tutti è la condizione naturale del popolo eurasiatico, che non appartiene a nessun padrone del mondo, e fa sentire ancora più profondamente “ortodossi”, gli ultimi difensori della vera fede contro tutti i depravati, gli eretici, gli immorali, come ha detto lo stesso Putin parlando degli ucraini (“una banda di drogati e neonazisti”). Non a caso la campagna bellica è definita della “de-nazificazione” delle terre russe, sentendosi nuovamente ai tempi di Stalin.
Le giovani generazioni russe non cadono però così facilmente nei tranelli della coscienza inebriata, essendo poco ricettivi delle grandi ideologie, tanto che il patriarca Kirill vorrebbe far chiudere internet e tutti gli annessi per evitare ai ragazzi ogni distrazione. Anche gli adulti, del resto, cominciano a fare i conti con gli effetti delle sanzioni occidentali, e comprendono che la Russia sta perdendo il suo benessere e il suo futuro. Un nuovo dissenso è alle porte, e pur con tutta la forza della censura e della repressione sta nuovamente emergendo “da sotto i massi”, secondo la famosa espressione di Solženitsyn.
Nelle città russe si succedono le manifestazioni contro la guerra, e i poliziotti non sanno più dove rinchiudere i dimostranti, arrestati già a migliaia. I ragazzi si muovono insieme o da soli, nei “picchetti individuali” con un cartello in mano, affiggono disegni e scrivono slogan sui muri, cercano di illustrare le loro ragioni con adesivi e colori, almanacchi di fumetti e storie personali, si rimbalzano continuamente sui social media tanto odiati dal regime.
Dal lager di Vladimir, Aleksej Naval’nyj incoraggia tutti “a non attendere un attimo a scendere in piazza nei giorni feriali e festivi, stringendo i denti e vincendo la paura, per chiedere la cessazione della guerra… Io in prigione ci sono già, e vi dico di non temere, di non tenere la bocca chiusa. Non credete ai deliri pseudo-storici del nostro folle zar, che vuole giustificarsi distorcendo gli eventi dei secoli passati per far sì che i russi uccidano gli ucraini, e quelli si difendano uccidendo i russi”.
Arrestano le donne e i bambini che depongono fiori davanti all’ambasciata ucraina, ma scrivono appelli i medici, i professori e i sacerdoti. Una dirigente del sindacato “Alleanza Medica”, Irina Volkhonova di Jaroslavl, ritiene che “firmare una lettera non è un atto di coraggio, è il minimo indispensabile per conservare il rispetto di sé stessi”. Per il 12 marzo hanno chiesto il permesso di sfilare sia i sostenitori della guerra che i contrari, organizzati dal partito liberale Yabloko, e ancora non si sa se verranno dati i permessi agli uni e agli altri, o si ammetteranno solo i cortei di trionfo per lo zar vincitore. La Russia vuole imporre al mondo il suo pensiero, ma potrebbe scoprire di non averlo saputo ancora imporre neppure al proprio popolo.
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