11/06/2022, 09.09
THAILANDIA
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Il buddhismo thai fra purezza originaria ed evoluzione linguistica

di Steve Suwannarat

Nel dibattito sulla tenuta della fede più diffusa nel Paese è entrato il fattore della comunicazione. Le diverse influenze incrinano l’aderenza alle radici della pratica religiosa. Sempre meno monaci conoscono il pali, la lingua colta dell’antichità. Il contrasto fra un linguaggio elitario e la semplicità del messaggio del Buddha. 

Bangkok (AsiaNews) - Nel dibattito sul ruolo e la “tenuta” del buddhismo, religione ampiamente maggioritaria in Thailandia e tra gli elementi essenziali della sua identità, vi è anche il fattore della comunicazione. In questo contesto, anche la lingua (oltre che il linguaggio) usata ha una grande rilevanza. Nonostante il continuo richiamo alla sua “purezza” e aderenza all’originale predicazione del Buddha (563-483 a.C.), il buddhismo thailandese è frutto di una evoluzione storica, territoriale e dottrinale. Un evento peraltro non unico nel panorama del buddhismo, religione missionaria aperta ad acquisire elementi delle diverse culture e popolazioni con cui è venuta in contatto a partire dal III secolo avanti Cristo.

In Thailandia, la pratica attuale è frutto di tre diverse influenze buddhiste: quella settentrionale, cinese, che ha seguito in qualche modo l’espansione dei thai dalle sedi originarie nella Cina meridionale al Golfo del Siam; quella locale, assimilata dalle popolazione birmane, mon, khmer e autoctone già convertite alla fede buddhista, perlopiù di origine Hinayana ma con elementi Mahayana; gli influssi successivi di monaci e migranti arrivati da aree, come l’India orientale e lo Sri Lanka, di forte influenza Hinayana, corrente che privilegia il ruolo dell’istituzione monastica e delle iniziative laicali associate a templi e monasteri.

Nonostante una varietà di influssi, la comunità buddhista thailandese si vuole legata alle radici della fede buddhista raccolte nel Canone buddhista, il Tipitaka (Tre canestri), redatto dal I secolo avanti Cristo nella lingua colta del tempo, il pali, soprattutto di uso liturgico e prossimo al sanscrito.

Proprio l’utilizzo del pali, spiegherebbe, non da solo ovviamente, il crescente distacco dalla pratica religiosa. Molti dei monaci che utilizzano espressioni in pali non conoscono questa lingua (nonostante i corsi noti per la difficoltà, al punto che tra il 1782 e il 2008 soltanto 1.220 monaci e novizi hanno superato il livello più elevato) o non comprendono pienamente quello che propongono ai fedeli. Anche nella gerarchia religiosa va facendosi strada la coscienza che l’utilizzo di una lingua antica ed estranea per l’insegnamento religioso attuale può avere effetti negativi, soprattutto tra i giovani. Esiste poi una contraddizione tra la semplicità del messaggio originario del Buddha e la sua volontà di renderlo comprensibile a tutti e l’uso di uno strumento elitario come il pali. Per questo, diversi propongono una riforma, forse una traduzione in lingua corrente del Canone, anche per evitare - come suggerito recentemente sul quotidiano Bangkok Post da un monaco di origine britannica  - che sia percepito come mezzo per coprire con una erudizione di facciata, esempi di condotta non moralmente ineccepibile che sembrano moltiplicarsi.

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