Il Libano ha bisogno di un nuovo presidente, sono in gioco la sua indipendenza e la sua stessa esistenza
Beirut (AsiaNews) - A essere in gioco sono l'indipendenza e l'esistenza stessa del Libano. Il giudizio è di una fonte diplomatica occidentale a Beirut che si stupisce del fatto che i maroniti non mettono la loro patria al sicuro da una tempesta regionale che può travolgerli e accettano il rischio della vacanza della poltrona presidenziale, che spetta a loro, solo per l'ambizione di occuparla di persona.
La Presidenza della Repubblica è vacante dal 25 maggio, quando è terminato il mandato di Michel Sleiman. Per essere eletto, il nuovo presidente deve avere, al primo turno, i due terzi dei voti del Parlamento, che conta 128 deputati, e dal secondo la semplice maggioranza assoluta, ossia 65 voti. Ma nessuno dei candidati "forti" alla presidenza, Michel Aoun e Samir Geagea, dispone dei voti necessari alla propria elezione e nessuno dei due è disposto a mettersi d'accordo con l'altro. Così, solo un candidato "di compromesso" avrebbe la possibilità di essere eletto. Da parte sua Geagea si è rassegnato a questa soluzione. Ma, ritenendo di essere l'unico col diritto di pretendere la presidenza, a causa della sua popolarità e delle dimensioni del gruppo parlamentare che guida, Aoun provoca sistematicamente la mancanza del quorum, il che impedisce alla Camera di riunirsi, nella speranza di portare i suoi avversari all'usura e guadagnare la loro adesione alla sua condidatura.
In cambio della sua elezione, Aoun ha promesso di garantire a Saad Hariri, in esilio per il timore di essere assassinato, la sicurezza necessaria per poter tornare in patria. Quest'ultimo, però, subordina la sua adesione a questo scambio a quella del suo alleato cristiano, Samir Geagea, che la respinge categoricamente, e a quella del suo protettore saudita, che pensa a tutt'altro. E non si vede davvero la fine di questa prova di forza che va avanti da due mesi.
La fonte diplomatica non fa i nomi di Michel Aoun e Samir Geagea, ma li indica in modo evidente chiedendo con lucidità: "Ma sono davvero liberi?". La libertà della quale si parla in questo caso riguarda i margini di manovra che gli alleati di Aoun e Geagea - gli sciiti per il primo e i sunniti per il secondo - lasciano loro per avvicinarsi ai loro avversari politici per mettere il Libano al riparo dalle potenze regionali, quella siro-iraniana nel primo caso e quello americano-saudita nel secondo.
"Riportare il Libano al centro, isolarlo dal conflitto regionale che infuria e gli effetti del quale in questo momento si fanno sentire in modo particolare in Iraq e Siria, dovrebbe essere l'obiettivo dei libanesi e in particolar modo dei cristiani del Paese", pensa questo osservatore della scena politica libanese.
Il riferimento evidente è alla Dichiarazione di Baabda presa sotto la presidenza Sleiman, un accordo sottoscritto allora da tutte le forze politiche libanesi, compreso Hezbollah, con il quale ci si impegnava a tenere il Libano "distante" dai grandi assi politici regionali. Il coinvolgimento militare di Hezbollah in Siria, denunciato dal presidente Sleiman prima della fine del suo mandato, ha dato un duro colpo a questa linea politica ed ha esposto il Paese ad azioni terroristiche condotte da gruppuscoli terroristi sunniti facenti parte del movimento dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante. Il pericolo non è ancora eliminato, tanto più che i combattimenti tra i ribelli siriani e Hezbollah, in questo moneto infuriano nella regione siriana di Qalamoun, vicino alla frontiera orientale del Libano.
Secondo la fonte diplomatica, il fatto che il Libano, le sue istituzioni e la sua sicurezza non siano già andati in frantumi dipende, molto semplicemente, "dalla sua piccolezza, dalla sua insignificanza strategica" e anche, nota con intelligenza, "dall'esistenza di Israele al suo confine meridionale". In caso contrario, a suo giudizio, sarebbe già stato coinvolto nella tempesta che è in corso e che rischia di aggravarsi se la logica del confronto vince sulla logica della trattativa, in particolare nel caso di uno scacco nei negoziati sul nucleare iraniano.
Egli ritiene che i combattimenti in Iraq e lo Stato islamico che si ritaglia uno spazio geografico in Iraq e Siria non siano che "le manifestazioni di una escalation pre-negoziale, ma non è una buona ragione per tentare il diavolo". Si tratta di indebolire l'Iran, per contenere la sua influenza nella regione e stabilire un migliore equilibrio di forze tra gli schieramenti regionali e, alla fine, tra Washington e Mosca, che combattono anche qui la campagna di influenza che ha per scenario il mondo intero, dal momento che arriva a un Paese europeo, come l'Ucraina, alcune regioni della quale sono prese da una febbre separatista alimentata dal grande vicino russo.
Il nostro osservatore ritiene che questa escalation non va confusa con un vero confronto totale. La regione, a suo giudizio, va verso il negoziato e le frontiere tracciate dall'accordo Sykes-Picot alla fine della Prima guerra mondiale, non saranno rimesse in discussione. Egli vede male, ad esempio, un Kurdistan indipendente che dovrebbe negoziare il suo territorio con quattro Stati: l'Iraq, la Turchia, la Siria e l'Iran. Nuovi confini, inoltre, metterebbero in discussione non solo l'ordine regionale, ma quello mondiale.
"Come è accaduto in Libano, ci sarà piuttosto lo spostamento di popolazione e la creazione di gruppi di comunità omogenee, di zone di influenza, di regioni autonome".
Quanto allo Stato islamico, il diplomatico ci vede una struttura passeggera, destinata a ridefinire le zone di influenza, ma senza radici storiche o popolari e senza futuro. Gli stessi alleati di quelle forze islamiste non hanno il coraggio di dichiararlo ufficialmente, nel timore di vedere la propria immagine infangata agli occhi del mondo occidentale. "E' questo il nuovo volto dell'islam che lascia la Primavera araba?".
Per tornare ai cristiani del Libano, e in particolare ai maroniti, la fonte auspica, pur vedendone l'idealismo, che Michel Aoun e Samir Geagea si accordino su una divisione del potere in modo che il Libano sia messo al sicuro da una grande scossa sempre possibile, visto il carattere aleatorio della situazione regionale e il rischio, anch'esso possibile, di uno scacco delle trattative sul nucleare iraniano o dell'imposizione da parte dei falchi israeliani di una soluzione militare a tale problema.
"Una visione d'insieme comune dei pericoli che corrono la regione e in Libano in particolare dovrebbe permettere alle forze presenti di agire con maggiore saggezza, anche a scapito delle ambizioni personali. L'accordo di sicurezza tiene, ma resta fragile. Se la volontà internazionale cambia, se il Libano è coinvolto nel grande scontro, l'accordo sulla sicurezza salta nel giro di qualche minuto. E' vero che in questo caso la presenza o la mancanza di un presidente non avrebbe forse molta importanza, ma la sua presenza avrebbe certamente un effetto di equilibrio. Altrimenti lo Stato potrebbe essere preso in ostaggio e diviso tra le fazioni. E' dunque importante e utile, in previsione del peggio e nella speranza che non arrivi, che sia eletto un nuovo capo dello Stato e che le istituzioni funzionino".