Il Jihad della 'Ortodossia atomica'
Gli eventi drammatici del conflitto tra Gaza e Israele si stanno ripercuotendo anche in Russia, dove oggi si celebra la festa dell’Unità popolare in ricordo della vittoria sui polacchi nel 1612. All'occasione il patriarca di Mosca Kirill ha accostato San Serafino di Sarov, uno dei santi più rappresentativi dell'indentità russa, che oggi vive di una rinnovata esigenza dell’autocoscienza, la la samobynost russa tante volte rievocata anche da Putin.
Gli eventi drammatici del conflitto israeliano-palestinese hanno suscitato nelle varie regioni della Federazione russa una reazione che rende piuttosto evidente un fattore: la corrispondenza tra estremismi religiosi storicamente opposti, quello cristiano-ortodosso e quello del fondamentalismo islamico.
La Russia putiniana, baluardo dei “valori tradizionali” ispirati al cristianesimo ortodosso, trova oggi nel crescere della rivolta musulmana contro Israele nuova linfa per affermare la propria specificità rispetto all’Occidente anglosassone, allineato con il “nemico israeliano” e il “nazismo ebraico” dell’Ucraina. La figura del nemico della “vera fede” si confonde tra le varie espressioni di religioni e culture “moderne”, da contrapporre a quelle “tradizionali” intese come “non allineate”, a prescindere dalle loro stesse identità confessionali.
Il 4 novembre, festa dell’Unità popolare della Russia in ricordo della vittoria sui polacchi nel 1612, celebra quest’anno l’esaltazione della “Ortodossia atomica”, facendo un accostamento estremo proposto dal patriarca di Mosca Kirill con la devozione a uno dei santi più rappresentativi della stessa identità russa, San Serafino di Sarov, rispetto agli esperimenti nucleari della base di Arzamas, accanto al monastero di Diveevo dove riposano le spoglie del “san Francesco russo” dell’Ottocento.
Nel 1946 il Kb-11, l’istituto principale del progetto atomico sovietico (oggi Centro federale nucleare russo), si era installato proprio nel pustyn, il “deserto” monastico dove San Serafino aveva vissuto da stilita per anni in cima a una roccia, un luogo molto isolato (i boschi della Mordovia), ma allo stesso tempo strategicamente vicino alla città di Nižnij Novgorod, centro dell’industria militare durante la seconda guerra mondiale, e a meno di 500 chilometri dalla capitale Mosca, una distanza non certo eccessiva per le dimensioni della Russia.
I dirigenti dell’istituto nucleare probabilmente non avevano fatto molto caso alla coincidenza con il luogo della devozione, ma l’espressione “Ortodossia atomica” è stata poi ripresa in diverse occasioni. Nel 1998 lo scrittore russo Maksim Kalašnikov, pseudonimo del giornalista Vladimir Kučerenko, nel libro “La spada spezzata dell’impero”, auspicava di “rafforzare il nucleo ortodosso del nostro impero, una spada che si affila nel momento della battaglia, una Ortodossia atomica, se volete”, in cui “la fede si unisce ai missili alati e ai radar acuti, come il centro nucleare di Arzamas si erge sulla memoria di San Serafino”.
L’anno successivo, l’artista di tendenza eurasista Aleksej Beljaev-Gintovt dipinse un quadro apocalittico, una croce che si stende sul panorama del mondo spianato dalle armi, intitolato proprio “Ortodossia atomica”. Nel 2003, sui luoghi del santo veniva aperto dallo scienziato e professore Viktor Lukjanov il Museo delle armi nucleari, e già allora l’asceta canonizzato per volere dello zar Nicola II venne presentato come “patrono” dell’arsenale atomico dal metropolita ortodosso di Nižnij Novgorod, l’eroe di guerra sovietico Nikolaj (Kutenov), che aveva iniziato il restauro del monastero di Diveevo.
Queste espressioni risalgono quindi a dimensioni profonde della coscienza ortodossa e patriottica russa, che nella sua tensione apocalittica sente di non poter vivere pienamente senza identificare il nemico da distruggere, che apra la prospettiva di un nuovo mondo da ricostruire. Non si tratta quindi specificamente di ostilità interetnica o interreligiosa, ma di un’esigenza dell’autocoscienza, la samobynost russa tante volte rievocata da Putin e Kirill. In questo senso non si può neppure parlare esplicitamente di antisemitismo russo, ma di utilizzo dello stereotipo dell’ebreo “maligno”, così diffuso nel mondo non soltanto islamico o cristiano, per ribadire l’esigenza di affermare la verità ortodossa contro chiunque ne sia estraneo.
Perfino durante le celebrazioni cattoliche in onore dei defunti dei giorni scorsi, che si associavano alla venerazione dei santi e alla memoria delle vittime staliniane, ci sono state dimostrazioni aggressive nei confronti, in questo caso, proprio dei “polacchi” a cui si associano tutte le discendenze cattoliche della Russia, i nemici storici dei Torbidi seicenteschi. Nel cimitero di Levašovo, nei dintorni di San Pietroburgo, si era radunata attorno al vescovo Nikolaj Dubinin la processione cattolica per la Commemorazione del 2 novembre, che ha trovato un comitato di accoglienza ostile in un gruppo di giovani della cosiddetta Volonterskaja Rota, la “Guardia dei Volontari” che normalmente si occupano di aiutare a tenere la città pulita. I ragazzi mostravano cartelli con le scritte Polacchi! Basta riscrivere la storia! Basta contestare i monumenti agli eroi sovietici! Avete dimenticato chi vi ha liberato dal fascismo?
I dimostranti non hanno compiuto azioni violente, ma hanno continuato a provocare con strepiti e accuse, disturbando la celebrazione della Santa Messa, che il vescovo Nikolaj presiedeva davanti al monumento ai cattolici repressi in tempi sovietici. L’installazione era stata asportata da ignoti a giugno, e il 30 ottobre è stata sistemata una composizione simbolica, al posto del monumento scomparso. Uno dei manifestanti mostrava un cartello esplicito in proposito: Basta installare senza permesso monumenti polacchi nei cimiteri russi!, anche se la funzione era celebrata in russo per cattolici di lingua russa, al di là delle provenienze familiari antiche o recenti.
La Rota si è evidentemente trasformata da un normale gruppo di volontari civili per la pulizia (e perfino per la donazione di sangue, e la raccolta degli animali randagi), nell’ennesima imitazione delle “compagnie militari” che secondo le finalità recentemente riscoperte si occupano di “educazione patriottica della gioventù, e custodia della memoria storica”. A Makhačkala in Daghestan erano attivisti islamici a caccia di “ebrei”, a San Pietroburgo erano zelanti ortodossi che mostravano i denti ai “polacchi”.
I polacchi sono i veri rappresentanti del fantasma “ucronazista”, in quanto gli scontri intorno ai fiumi del Dnepr e del Don, che separano le diverse varianti degli slavi orientali, hanno percorso la storia dal XIV al XX secolo, e l’Ucraina è soltanto l’esito finale di questa guerra infinita. E dalla Polonia erano giunti in Russia gli ebrei perseguitati da secoli nell’intera Europa, prima di partire dal porto di Odessa per costituire il nuovo Stato di Israele. Dal punto di vista russo, la continuità dei conflitti è semplice da riassumere: sono tutti nemici della Santa Russia, sia essa ortodossa o islamica. In fondo, la religione musulmana si è insediata solo verso la fine del giogo tartaro, che inizialmente non aveva connotazioni confessionali (Gengis Khan aveva creato il suo impero anche sulla tolleranza dei culti e delle tradizioni locali), e ha mantenuto un profilo di “devozione patriottica” anche sotto il regime sovietico ateo, che non ha sentito il bisogno di perseguitare più di tanto le popolazioni musulmane.
È stato poi il terrorismo di Al Qaeda, e in seguito dell’Isis, a provocare reazioni identitarie nei russi; lo stesso Putin fu insediato al governo nel 1999 per combattere il radicalismo islamico che si stava diffondendo in Cecenia. Le repubbliche sovietiche a maggioranza islamica, come gli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale, cercano di imporre una visione meno “teocratica”, dove i capi religiosi devono sottomettersi ai governi laici, e magari gli stessi presidenti e politici locali riscrivono il Corano a proprio vantaggio. È la sinfonia dei poteri proposta dall’Ortodossia di derivazione bizantina: i patriarchi e i mullah dettano la linea, i presidenti e i generali la impongono con la forza, in nome dell’Unità del Popolo.
Già nel 2007, in una grande conferenza stampa, Vladimir Putin aveva affermato che “le confessioni tradizionali della Federazione russa, insieme allo scudo delle armi nucleari, sono le componenti fondamentali che rafforzano la statualità russa”. Resta solo da sperare che il jihad della fede islamico-ortodossa non inserisca la guerra atomica negli articoli del katekhon russo, “ciò che trattiene” secondo San Paolo, il “dogma patriottico universale” secondo i discepoli di San Serafino di Sarov.
16/09/2023 09:00