11/01/2025, 10.00
MONDO RUSSO
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I 25 anni cupi dello zar Putin

di Stefano Caprio

È passato ormai un quarto di secolo dall'ascesa dalla cessione dei poteri da parte di Boris Eltsin. Nessuno allora pensava che sarebbe scomparsa quella pacifica e fiorente Russia che nel 1997 aveva festeggiato gli 850 anni di Mosca. Oggi invece gli auguri per il nuovo anno ripetono sinistramente “andremo avanti, fino alla vittoria” mentre tutto sembra riportare la Russia sempre più indietro.

È trascorso ormai un quarto di secolo dall’ascesa al trono del Cremlino di Vladimir Putin, l’evento che - secondo la definizione di Andrej Kolesnikov su Novaja Gazeta - ha provocato “la più grande catastrofe antropologica del XXI secolo”. In realtà la scelta di affidargli le sorti del Paese dopo “la svolta più tragica del XX secolo”, come Putin ha definito la fine dell’Urss, era avvenuta prima dell’inizio del terzo millennio dell’era cristiana, quando Boris Eltsin innescò la “mina a effetto ritardato” dell’oscuro funzionario del Kgb-Fsb, mettendolo a capo del governo a fine 1998 e cedendogli la presidenza alla vigilia del nuovo secolo, uscendo di scena e dalla storia, raccomandando all’ex-vicesindaco di San Pietroburgo di “aver cura della Russia”.

Fu la fine dell’incerta democrazia post-sovietica, che si era espressa fin dall’elezione di Eltsin nel 1990 a presidente della repubblica sovietica russa Rsfsr nel tentativo gorbacioviano di salvare il sistema, riformandolo dall’interno. Nel 1996 Eltsin era poi stato rieletto come presidente della Federazione russa, sconfiggendo a fatica il rinato partito comunista di Gennadij Zjuganov, sostenuto dalla Chiesa ortodossa del metropolita Kirill (Gundjaev), e già allora si era capito che la Russia stava tornando indietro nella storia, rievocando le sue pretese imperiali. Nel 2000 l’elezione di Putin, già facente funzioni al posto di Eltsin, si tenne il 26 marzo e vide la vittoria del “democratico” successore, con il 53% contro il 30% del comunista Zjuganov, che da allora divenne un suo devoto sostenitore, sommando quindi il “consenso popolare” al fatidico 80%, cifra minima della tradizione totalitaria. La democrazia russa si era ormai esaurita.

Il “totalitarismo di ritorno”, come lo chiama il sociologo Lev Gudkov, direttore del Levada-Centr, ha generato la progressiva regressione antropologica del popolo russo, un senso di auto-repressione prima ancora delle leggi anti-tutto e delle liste di proscrizione, ormai all’ordine del giorno nella Russia in guerra permanente. Uomini e donne che vivevano l’ebbrezza della libertà di espressione e del confronto di idee diverse sul presente e sul futuro della Russia, hanno cominciato progressivamente a pensare e comportarsi in modo servile e ciecamente “patriottico”. Nelle trasmissioni di Capodanno dei giorni scorsi, faceva impressione vedere cantanti libertari some Filipp Kirkorov esibirsi quasi in divisa militare, e uomini di cultura che addobbano l’albero con bombe e munizioni, augurando lo sterminio degli ucraini “se non entro l’anno, almeno tra due o tre anni”.

Negli anni Novanta si era diffuso il tipo del “nuovo russo”, dedito al consumismo sfrenato dopo decenni di astinenza brezneviana, che viaggiando tra le coste del Mediterraneo e le Alpi francesi cercava di non dare importanza al complesso d’inferiorità rispetto all’opulenza dell’Occidente, e di scacciare i rigurgiti del risentimento per la perdita della super-potenza sovietica, ciò che invece caricava la mina di Putin fino all’esplosione degli anni Venti. Le pallide riforme liberali del primo quinquennio post-sovietico sono state rapidamente messe da parte per conservare l’illusione del benessere oligarchico, che è stato quindi piegato al servizio del potere centrale fino all’investimento dell’economia bellica attuale, il vero scopo della ricchezza accumulata nel primo ventennio della Russia eltsin-putiniana.

Come diceva Aleksandr Rubtsov, uno dei più importanti politologi recentemente scomparso, il vertice della piramide del potere putiniano si è costruita sulla base di una selezione dei quadri dirigenti definita come “sistema di elevazione dei canali fognari”, creando una casta di “simil-Putin” che rende oggi impossibile pensare a un futuro di cambiamento e rinnovamento politico, qualunque sia il destino personale dello zar. Lo scrittore Denis Dragunskij afferma che il 2025 si apre in Russia come “un invitante quadro di pro-retrospettive”.

Nessuno pensava un quarto di secolo fa che sarebbe scomparsa quella pacifica e fiorente Russia che nel 1997 aveva festeggiato gli 850 anni di Mosca, e nel 2003 i 300 anni di San Pietroburgo, rimettendo a lustro le due storiche capitali del Paese nel turbinio dell’evroremont, la costruzione di edifici moderni in stile europeo. La Russia non provava l’umiliazione di sentirsi esclusa, essendo molto attiva sui mercati internazionali con le sue infinite risorse energetiche, la scienza e la formazione si intersecavano con le istituzioni più importanti di tutti i Paesi d’Oriente e Occidente, il moderno sistema pensionistico, garantito dalla rete oligarchica, assicurava un sereno mantenimento delle famiglie e degli anziani, perfino la sanità funzionava per tutti, al di là delle inevitabili derive di corruzione.

Oggi invece gli auguri per il nuovo anno ripetono sinistramente “andremo avanti, fino alla vittoria”, quando è evidente che la Russia corre sempre più all’indietro, ripercorrendo le tratte siberiane dei lager sovietici fino alle russificazioni forzate degli ucraini da parte degli zar ottocenteschi, e ai sogni della Terza Roma del primo zar, Ivan il Terribile. Come diceva l’eroe di un romanzo del filosofo e scrittore Aleksandr Zinov’ev, “noi andiamo avanti, superando di molto le nostre terga”, senza concedere a nessuno una pausa per ripensare a ciò che accade. Chi esprime anche solo dei dubbi viene marginalizzato, o addirittura escluso dalla società come “traditore della nazione”, con tendenze all’estremismo per chi non si arrende alla catastrofe. L’epoca dei droni che si abbattono sulle città, e degli aerei che crollano per cause oscure, viene chiamata “era della sicurezza”, e la disgregazione delle famiglie e delle relazioni umane viene celebrata nell’Anno della Famiglia appena concluso, in vista dell’Anno della Vittoria e dell’Unità che sarà celebrata il prossimo 9 maggio, per gli ottant’anni dalla fine gloriosa della Grande Guerra Patriottica.

L’isolamento dalla cultura e dalla società mondiale, con l’esclusione da ogni possibile scambio di studenti e ricerche con università straniere, la chiusura dei mercati energetici e tecnologici, perfino lo scisma ecclesiastico con le altre Chiese ortodosse, tutto questo viene esaltato come la nuova “sovranità” della Russia, contro ogni ingerenza dall’esterno. Nelle scuole si tengono rituali arcaici e grotteschi, con le marce dei bambini dell’asilo sotto i ritratti di Stalin, per difendere i “valori tradizionali morali e spirituali”. La difesa dei diritti più elementari, da quelli dei dieci comandamenti biblici alla carta dell’Onu, o perfino quelli elencati nella stessa costituzione della Federazione russa, risulta essere una “ideologia distruttiva”, superando nella realtà perfino le fantasie di Orwell e Kafka, o di Bulgakov e Zamjatin.

Il risentimento della Russia putiniana ripercorre le accuse della più classica domanda della letteratura e della pubblicistica russa, “di chi è la colpa?”. Si risale a Nikita Khruscev, che permise di indossare i blue-jeans che “mortificano il genere maschile” e regalò la Crimea agli ucraini, a Mikhail Gorbačëv che fece a pezzi il sistema immutabile della “stagnazione brezneviana” e consegnò agli occidentali tutta l’Europa orientale, fino a Egor Gajdar, l’economista di Eltsin che con le privatizzazioni ha “svenduto la Russia agli americani”. Viene accusato perfino il semi-divino Vladimir Lenin, che non seppe tenere unito l’impero e “inventò l’Ucraina”, costringendo Stalin a rimettere insieme i pezzi “facendo qualche vittima”. Non mancano le accuse all’oligarca ungherese-americano George Soros, personaggio emblematico dei “poteri forti” che tramano nell’ombra, che con le sue azioni “umanitarie” ha infettato la Russia con sistemi di istruzione e pubblicazioni totalmente estranei al vero spirito patriottico.

Da venticinque anni in Russia domina un regime sempre più cupo e oppressivo, su cui non si può discutere né obiettare, e si è costretti a discettare delle colpe di Eltsin e Gajdar. La storia viene continuamente riscritta e riadattata, nei manuali obbligatori per le scuole di ogni ordine e grado, fino alla rimozione della lapide commemorativa delle vittime del lager delle Solovki dalla piazza della Lubjanka, il regno del Kgb-Fsb da cui proviene il tipo antropologico putiniano. In molte città vengono invece nuovamente eretti i monumenti a Stalin, il vero capostipite di questa forma di umanità insensibile e aggressiva, retrograda e apocalittica che oggi domina un Paese sempre più irriconoscibile e degenerato, anche rispetto alle sue epoche più sanguinarie.

Uno dei massimi sostenitori e ideologi putiniani, l’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev, ha rivolto un augurio di Capodanno dagli schermi del suo canale televisivo Tsargrad, assicurando che “quest’anno sarà tutto diverso, senza quel vecchio fanatico di Biden e con una persona pragmatica e amante della Russia come Trump”, rivelando i veri sentimenti dei russi per una figura che riflette in gran parte le dimensioni della “antropologia sovranista”. Un quarto di secolo è un lungo periodo, che ha superato quelli di molti altri dittatori della Russia antica e moderna, e soprattutto ha fatto dimenticare le luminose visioni della “fine della storia” nella globalizzazione economica e tecnologica. Si apre un’era di isolamento universale, da Trump a Putin, dall’Oriente all’Occidente, dove ciò che sembra scomparire non è soltanto la democrazia e la pace, le libertà e i diritti, ma la stessa persona umana.

 

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