Hong Kong, il governo chiude le porte al suffragio universale
Hong Kong (AsiaNews) – La prossima elezione del Capo dell’Esecutivo di Hong Kong, prevista per il 2017, si svolgerà come previsto dall’Assemblea nazionale del Popolo di Pechino. Una Commissione elettorale, formata da rappresentanti del mondo dell’industria e della politica, di fatto vicini alla Cina continentale, avrà il compito di scremare i candidati al ruolo in due diverse fasi. Alla fine rimarranno “due o tre” contendenti, che potranno presentarsi davanti all’elettorato. Lo ha affermato con decisione questa mattina la Segretaria dell’Esecutivo, Carrie Lam Cheng Yuet-ngor, nel corso di un intervento al Consiglio Legislativo che ha visto l’uscita dall’aula del gruppo democratico.
Entrando nei particolari della “riforma” concordata con l’attuale leader Leung Chun-ying, la Lam ha spiegato che i candidati al ruolo per le elezioni del 2017 dovranno ottenere in prima battuta almeno 120 voti a favore da parte della Commissione elettorale. Questa, composta da 1.200 membri, sarà formata “sul modello della Commissione attualmente in vigore” e che di fatto sceglie il Capo dell’Esecutivo. In pratica sarà espressione di quattro macro-settori (industria, politica, professionale e settore socio-religioso), a loro volta divisi in 38 sotto-sezioni.
Ogni aspirante al ruolo potrà ottenere “al massimo 240 voti – ha spiegato la Lam – in modo che il sistema produca da un minimo di cinque a un massimo di dieci candidati”. Superata questa prima fase, però, si passerà a una seconda selezione in cui i prescelti dovranno contendersi i voti sempre della stessa Commissione: “I due o tre candidati con il maggior numero di preferenze potranno poi presentarsi davanti all’elettorato”. La numero due del governo non ha chiarito chi o come si deciderà il numero finale dei candidati; cosa accadrà se dovesse passare un solo nome; quali procedure saranno adottate fra la prima e la seconda votazione interna alla Commissione.
Durante il suo discorso, un gruppo composto da 17 deputati democratici (su 27 totali) ha lasciato l’aula del Consiglio Legislativo urlando slogan contro l’asservimento del governo locale a quello di Pechino. Sui loro banchi hanno lasciato delle grandi “X” in cartone (v. foto) a significare l’opposizione al progetto del governo. Secondo Alan Leong Kah-kit, leader del Civic Party, la proposta dell’esecutivo “va respinta al mittente. Non c’è dubbio che noi porremo il veto durante la votazione per l’approvazione della cosiddetta riforma”.
Proprio questa votazione è considerata cruciale. Prevista per maggio, ha bisogno di due terzi del Consiglio per essere approvata: su un totale di 70 deputati, servono almeno quattro voti democratici. Qualora non dovesse essere approvata, la riforma rimarrà lettera morta ma l’elezione del Capo dell’Esecutivo rimarrà nelle mani della Commissione elettorale, e quindi di fatto nelle mani di Pechino.
La bozza di riforma elettorale per Hong Kong è stata presentata nell’agosto del 2014 dalla Commissione permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo di Pechino ed è identica a quella ribadita oggi dall’esecutivo del Territorio. Dopo il pronunciamento cinese, decine di migliaia di persone hanno deciso di aderire al movimento pacifico “Occupy Central with Peace and Love”, che per mesi ha tenuto in scacco il governo locale chiedendo una vera riforma in senso democratico.
La rivolta si è conclusa in modo relativamente pacifico – a parte qualche scontro sporadico fra democratici e governativi – ma ha lasciato un segno importante nella popolazione. Al momento, i movimenti studenteschi che si sono uniti ad Occupy – e hanno di fatto preso le redini del movimento – hanno espresso l’intenzione di “aspettare la votazione di maggio” per capire se e in che modo far ripartire la protesta popolare. I leader di Occupy hanno espresso “sostegno” alle frange democratiche del Consiglio Legislativo, senza però fornire altri dettagli su una possibile ripresa delle manifestazioni.
Anche la Chiesa cattolica si è spesa in questi mesi a favore delle manifestazioni. Pur invitando sempre i fedeli alla calma e alla non violenza, la diocesi ha aperto le chiese nelle zone occupate anche di notte per permettere ai dimostranti di riposare; ha pubblicato appelli e analisi a favore della riforma democratica del Territorio; si è spesa per cercare un compromesso pacifico quando la situazione sembrava precipitare. In prima fila, sin dagli inizi del movimento, il vescovo emerito card. Joseph Zen Ze-kiun, che ha persino passato alcune notti con i manifestanti democratici.
27/10/2014
30/03/2017 11:30
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