Guarire da angosce e paure, le ferite nascoste causate dai Khmer rossi
di Dario Salvi
A 30 anni dalla caduta del regime sanguinario, il Paese porta ancora le ferite “sociali e individuali” di violenze e massacri. Ansia, stress, depressione colpiscono oltre il 10% della popolazione e vengono giudicati un “fantasma da estirpare con rituali”. L’attività di una operatrice cattolica, che chiede “più strutture” per rispondere all’urgenza.
Roma (AsiaNews) – Il processo a carico dei leader Khmer rossi è “una forma di riabilitazione e un tentativo di guarigione” per la popolazione cambogiana, che porta ancora le ferite causate dai rivoluzionari maoisti. Tuttavia, alle “ferite sociali” si uniscono anche i “traumi individuali” causati dai massacri del regime, che spesso “vengono tenuti nascosti” per paura, vergogna o perché mancano strutture adeguate per poterli affrontare. È quanto racconta ad AsiaNews Many Phok, 30enne cattolica, sposata e madre di due figli, vice-direttore dell’Ong New Hope for Cambodian Children. La donna in questi giorni è a Roma, delegata per la Cambogia alla 26.ma Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori sanitari, aperta ieri in Vaticano. L’incontro di quest’anno – intitolato “La pastorale sanitaria al servizio della vita alla luce del Magistero del Beato Giovanni Paolo II” – è dedicato a Karol Wojtyla e registra la partecipazione di 685 persone, in rappresentanza di 70 Paesi.
Il 21 novembre scorso il tribunale Onu per i crimini di guerra a Phnom Penh ha aperto il secondo processo a carico di leader Khmer rossi, che vede imputati Nuon Chea, il “Fratello numero due”; Khieu Samphan, ex capo di Stato della Kampuchea Democratica e Ieng Sary, ex ministro degli Esteri del regime. Il primo procedimento si è chiuso con la condanna a 30 anni di carcere per Kaing Guek Eav, meglio noto come “compagno Duch” e direttore della famigerata S-21, il carcere di Tuol Sleng a Phnom Penh dove sono morte oltre 15mila persone, solo sette i sopravvissuti. La dittatura maoista tra gli anni 1975 e 1979, guidata da Pol Pot, ha causato quasi due milioni di vittime, circa un quarto della popolazione. Seppur accusato di corruzione e inefficienze, il tribunale delle Nazioni Unite rappresenta “una forma di guarigione” per i cambogiani, che portano ancora “profonde ferite” sociali e individuali. Many Phok racconta la “sofferenza dei testimoni in aula, nel ricordare il periodo dei massacri”, cui si accompagna una “sensazione di sollievo” dopo aver raccontato ai giudici il dramma vissuto.
“Il passato non si può dimenticare – afferma – e finora non si sono presentate molte occasioni per riflettere su quanto il Paese ha vissuto”. Forse siamo ancora lontani da un percorso di revisione storica dell’era dei Khmer rossi, ma a distanza di 30 anni comincia a emergere la volontà di analizzare il passato, conservare la memoria delle vittime del regime e scoprire “perché il popolo cambogiano ha voluto auto-distruggersi”. “Ogni anno la mia famiglia – continua la donna – rende omaggio a mio nonno, ucciso dai Khmer rossi; la ricorrenza è occasione per piangere le vittime e ricordare il passato. Ma quando vengono trasmesse in tv le immagini del processo, le lacrime si asciugano, l’emotività viene messa da parte e si cerca di capire la storia”. “La vita quotidiana, i luoghi ti ricordano il genocidio – aggiunge Many Phok – ed è impossibile dimenticare quanto è successo”.
Alla tragedia collettiva di un popolo, si uniscono i traumi psicologici individuali che a distanza di tempo continuano ad emergere e vanno affrontati con un percorso terapeutico adeguato. Tuttavia in Cambogia permane una sensazione comune di “diffidenza” verso questo tipo di problemi, unita alla “ritrosia insita nella società” nel chiedere aiuto e sostegno. Un proverbio cambogiano afferma che “tu devi bastare a te stesso”, spiega l’operatrice umanitaria, e queste parole “testimoniano la diffidenza verso le malattie della mente, che si tende a nascondere anche ai familiari quasi fossero fonte di vergogna e umiliazione”. Depressione, ansia, crisi di panico e altre patologie legate alla mente, al disagio sociale, ad un trauma subito, sono viste come un “fantasma che si è impossessato dell’individuo” e vengono il più delle volte “curate” con riti, speciali benedizioni o formule magiche per “scacciare lo spirito maligno”; invece di rivolgersi al medico, ci si affida al “guaritore, al monaco buddista che compie un rituale”.
In realtà i disturbi di natura psicologica, aggiunge Many Phok, sono “molto diffusi”: vengono chiamati “malattie della strada del cuore” e arrivano a colpire “oltre il 10% della popolazione, ma i numeri potrebbero essere ancora maggiori”. A questo si aggiunge la confusione fra neurologia e psichiatria e la carenza di strutture adeguate: i reparti in molti casi somigliano a “vere e proprie gabbie di matti” e costituiscono essi stessi un ostacolo alla possibilità di cura e guarigione. Oggi a Phnom Penh è operativo il primo centro per persone affette da disagi psicologici, ma la situazione al di fuori della capitale è ancora arretrata, mancano centri e strutture in grado di rispondere ai bisogni della popolazione. “L’attività di counselling verso il paziente, adulti e bambini – conclude l’attivista cattolica – è fondamentale per capire i problemi e avviare un percorso terapeutico, che sia in grado di risolvere malesseri fonte di disagio sociale o individuale”.
Il 21 novembre scorso il tribunale Onu per i crimini di guerra a Phnom Penh ha aperto il secondo processo a carico di leader Khmer rossi, che vede imputati Nuon Chea, il “Fratello numero due”; Khieu Samphan, ex capo di Stato della Kampuchea Democratica e Ieng Sary, ex ministro degli Esteri del regime. Il primo procedimento si è chiuso con la condanna a 30 anni di carcere per Kaing Guek Eav, meglio noto come “compagno Duch” e direttore della famigerata S-21, il carcere di Tuol Sleng a Phnom Penh dove sono morte oltre 15mila persone, solo sette i sopravvissuti. La dittatura maoista tra gli anni 1975 e 1979, guidata da Pol Pot, ha causato quasi due milioni di vittime, circa un quarto della popolazione. Seppur accusato di corruzione e inefficienze, il tribunale delle Nazioni Unite rappresenta “una forma di guarigione” per i cambogiani, che portano ancora “profonde ferite” sociali e individuali. Many Phok racconta la “sofferenza dei testimoni in aula, nel ricordare il periodo dei massacri”, cui si accompagna una “sensazione di sollievo” dopo aver raccontato ai giudici il dramma vissuto.
“Il passato non si può dimenticare – afferma – e finora non si sono presentate molte occasioni per riflettere su quanto il Paese ha vissuto”. Forse siamo ancora lontani da un percorso di revisione storica dell’era dei Khmer rossi, ma a distanza di 30 anni comincia a emergere la volontà di analizzare il passato, conservare la memoria delle vittime del regime e scoprire “perché il popolo cambogiano ha voluto auto-distruggersi”. “Ogni anno la mia famiglia – continua la donna – rende omaggio a mio nonno, ucciso dai Khmer rossi; la ricorrenza è occasione per piangere le vittime e ricordare il passato. Ma quando vengono trasmesse in tv le immagini del processo, le lacrime si asciugano, l’emotività viene messa da parte e si cerca di capire la storia”. “La vita quotidiana, i luoghi ti ricordano il genocidio – aggiunge Many Phok – ed è impossibile dimenticare quanto è successo”.
Alla tragedia collettiva di un popolo, si uniscono i traumi psicologici individuali che a distanza di tempo continuano ad emergere e vanno affrontati con un percorso terapeutico adeguato. Tuttavia in Cambogia permane una sensazione comune di “diffidenza” verso questo tipo di problemi, unita alla “ritrosia insita nella società” nel chiedere aiuto e sostegno. Un proverbio cambogiano afferma che “tu devi bastare a te stesso”, spiega l’operatrice umanitaria, e queste parole “testimoniano la diffidenza verso le malattie della mente, che si tende a nascondere anche ai familiari quasi fossero fonte di vergogna e umiliazione”. Depressione, ansia, crisi di panico e altre patologie legate alla mente, al disagio sociale, ad un trauma subito, sono viste come un “fantasma che si è impossessato dell’individuo” e vengono il più delle volte “curate” con riti, speciali benedizioni o formule magiche per “scacciare lo spirito maligno”; invece di rivolgersi al medico, ci si affida al “guaritore, al monaco buddista che compie un rituale”.
In realtà i disturbi di natura psicologica, aggiunge Many Phok, sono “molto diffusi”: vengono chiamati “malattie della strada del cuore” e arrivano a colpire “oltre il 10% della popolazione, ma i numeri potrebbero essere ancora maggiori”. A questo si aggiunge la confusione fra neurologia e psichiatria e la carenza di strutture adeguate: i reparti in molti casi somigliano a “vere e proprie gabbie di matti” e costituiscono essi stessi un ostacolo alla possibilità di cura e guarigione. Oggi a Phnom Penh è operativo il primo centro per persone affette da disagi psicologici, ma la situazione al di fuori della capitale è ancora arretrata, mancano centri e strutture in grado di rispondere ai bisogni della popolazione. “L’attività di counselling verso il paziente, adulti e bambini – conclude l’attivista cattolica – è fondamentale per capire i problemi e avviare un percorso terapeutico, che sia in grado di risolvere malesseri fonte di disagio sociale o individuale”.
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