Grandi prospettive per l'India che sta cambiando
Milano (AsiaNews) - Qualcosa sta cambiando in India. Il rilancio dell'industria manifatturiera, la nuova importanza attribuita all'agricoltura, il buono e a volte eccellente livello dell'istruzione scientifica, le aperture in campo finanziario motivano ottimismo e interesse mondiale verso un Paese che, malgrado problemi come una faraonica burocrazia e la mancanza di infrastrutture, ha il potenziale per produrre il più alto tasso di crescita nei prossimi 50 anni. Democrazia e uno sviluppo più armonico di quello cinese sembrano mettere al riparo da possibili turbe sociali.
La novità non è tanto la politica del nuovo governo del partito del Congresso: al potere da un anno, non ha avuto nemmeno il tempo per impostare un reale cambiamento. L'India rampante dello sconfitto partito nazionalista Janata, l'India che, grazie all'inglese aveva tutto puntato sui servizi l'informatica in primo luogo ma anche la delocalizzazione internazionale della contabilità e dei call center non è certo scomparsa. È però sbiadita come obiettivo, come modello su cui fondare il futuro. Anche in India l'euforia e gli splendori per pochi ma pure gli eccessi - della cosiddetta Nuova economia hanno lasciato il passo alla consapevolezza di quanto sia poi rilevante la "vecchia" economia. Gli eventi internazionali ed in particolare la mancanza di energia e l'aumento dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime - hanno, infatti, mostrato come il famoso sviluppo "leggero", basato più sui servizi che sulle ciminiere industriali, ha un limite nell'evanescenza dei ricavi, in quanto è, in fin dei conti, immateriale. Questa nuova consapevolezza ha portato ad un generale riaggiustamento di rotta. Questo significa nuova enfasi sia sull'industria manifatturiera, come ad esempio quella tessile, che sugli approvvigionamenti di base, come l'energia, ma anche sull'esportazione di alcune materie prime, come il minerale di ferro. Non ultima, riacquista attenzione oggi anche l'agricoltura, grande cenerentola dell'economia indiana, trascurata, perché considerata retaggio di una società arcaica, nonostante una forte quota della popolazione dipenda proprio da essa. Oggi viene rivalutata anche come punto di forza di alcune esportazioni industriali come, ad esempio, quelle tessili che, proprio nella disponibilità locale di cotone, possono basarsi per resistere con successo allo strapotere quasi monopolistico della Cina.
In questo generale riaggiustamento di rotta, il governo, per parte sua, sta cercando di recuperare il terreno perso, almeno un anno, rispetto ai grandi colossi asiatici, la Cina ed il Giappone, nel garantire al sistema industriale gli approvvigionamenti energetici. Proprio in queste settimane è in corso una offensiva diplomatica per assicurare l'approvvigionamento di petrolio e delle altre materie prime ovunque possibile, non solo nelle aree più tradizionali e logiche per l'India, ma anche in posti geograficamente e culturalmente distanti come l'America Latina.
Il riorientamento verso l'industria manifatturiera è, certo, frutto dei tempi mutati a livello internazionale ma è anche molto nelle corde del partito del Congresso oggi al potere, che ha ancora una base operaia. D'altro canto, con la fine dello spazio economico sovietico nel cui circuito l'economia indiana era, di fatto, inserita, l'epoca del socialismo di Stato per l'India è, per fortuna, una stagione terminata, anche se restano strascichi dello statalismo sia nella spesso soffocante burocrazia, sia in quel che a Cuba viene definito "socionismo", cioè nella necessità di ricorrere a dei "socios" per dribblare le maglie strette ed assurde di una soffocante e cieca regolamentazione. E' la maggiore delle distorsioni all'origine del controllo dell'economia da parte di alcuni grandi imprese che hanno potuto prosperare non perché più efficienti ed innovative, ma solo perché posseggono le "chiavi" del sistema, senza le quali è difficile per aziende piccole ma soprattutto per le grandi operare. Questa è forse la ragione per cui molti operatori esteri non si sono lanciati nell'investire in India e questa è anche una delle ragioni per cui chi l'ha fatto, come ad esempio la Fiat, non ha registrato che perdite nonostante tutte le potenzialità del mercato indiano.
D'altronde produrre per il mercato interno indiano è spesso un'opzione preclusa alle imprese estere anche per questioni di legge, a meno di non insediarsi con molte limitazioni nelle zone franche. Eppure, la vecchia predilezione per l'industria, tipica di un partito socialista ed operaio, non manca di alcune carte vincenti. Infatti, lo stimolo innovativo, proprio dell'attività manifatturiera, è un fattore cardine per il futuro dell'intera struttura della società . Da un lato fornisce un'occupazione più interessante e meglio remunerata, dall'altro lato richiede una manodopera più qualificata, un addestramento ed un impegno continuo ed una migliore istruzione economica, matematica ed informatica. Tutto ciò esige dal sistema scolastico ed universitario una istruzione scientifica e tecnologica adeguata. Non solo dunque i bassi salari ma anche il rapido innalzamento del livello dell'istruzione e la forte selezione meritocratica degli studenti sono probabilmente il segreto dell'attuale spinta propulsiva dell'India e della Cina. Lo conferma la preferenza che imprese ed istituti di ricerca statunitensi accordano ai laureati dell'Istituto indiano di tecnologia (Indian Institute of Technology). Altrettanto nota da sempre è l'eccellenza indiana nella matematica le cifre del sistema decimale di calcolo sono di origine indiana - e più recentemente nella fisica. Non bisogna dunque immaginare che l'espansione manifatturiera indiana si limiti all'industria tessile ed a quella informatica. Già oggi, infatti, l'India si propone, con ottime probabilità di successo, come base per la delocalizzazione di industrie strategiche come quella aerospaziale, grazie anche alla rilevanza, in questo settore, dell'avionica, cioè della strumentazione elettronica di controllo. In questo campo l'India può quindi sfruttare la sua predominanza nel settore dell'informatica, oltre ai bassi costi della manodopera con elevate qualifiche scientifiche e d'ingegneria.
Le opportunità di sviluppo sono notevoli anche nel settore delle telecomunicazioni, dell'industria dell'auto soprattutto nel settore della componentistica, dopo che è stata liberalizzata nel 2002 la partecipazione estera fino al 100% dell'investimento - e della chimica-farmaceutica oltre che dell'alimentare. La crescita economica indiana non è dunque un fatto estemporaneo, trainato dalla generale espansione asiatica, ma un movimento di lungo periodo anche se ancora non coinvolge tutti - i dalit, i paria cioè, rimangono ancora ai margini. Lo scorso anno fiscale la crescita economica dell'India è stata dell'8,2%, la maggiore degli ultimi quindici anni. Per il prossimo anno fiscale la Banca asiatica di sviluppo ADB ha nei giorni scorso confermato la propria precedente previsione di un incremento del 6,5 % annuo, nonostante l'impatto avverso dello tsunami. Con tali tassi di crescita, nel 2022 le dimensioni totali dell'economia indiana supereranno quelle della Gran Bretagna, sua antica dominatrice coloniale. Secondo una ricerca della Deutsche Bank, India e Cina nel 2020 avranno superato il Giappone che sarà sospinto al quarto posto mentre al primo posto per dimensioni totali rimarranno gli Stati Uniti.
Rispetto a quella cinese, la crescita economica indiana, pur notevole, è stata negli ultimi anni meno esuberante, inferiore di circa il 20 %. Eppure l'India e la Malesia supereranno la Cina in termini di tasso di espansione economica nei prossimi quindici anni, soprattutto grazie all'espansione demografica, all'aumento cioè della popolazione in età lavorativa. Mentre in media il tasso di crescita della Cina sarà infatti del 5,2 % anno, quello dell'India sarà del 5,5% e quello della Malesia il 5,4 %. Insomma la Cina dovrà ben presto pagare anche in termini economici la politica del figlio unico. Secondo la Goldman Sachs, la crescita economica in India sarà superiore a quella della Cina a partire dal 2015. Dominic Wilson della Goldman Sachs ha affermato "L'India ha il potenziale per produrre il più alto tasso di crescita nei prossimi 50 anni con una media di più del 5 % anno per l'intero periodo. La crescita della Cina si prevede cadrà sotto il 5 % attorno al 2020.".
Su questo cammino di crescita l'India si trova però ad affrontare alcuni ostacoli. Il primo è che finora ne sono rimasti alcuni ampi settori della popolazione, non solo i dalit, ma anche i contadini. E nel lungo periodo uno sviluppo a due velocità molto diverse non è sostenibile: il rischio è di creare, in megalopoli ingovernabili, una radicata ed endemica estraneità sociale al nuovo benessere con ovvie potenzialità dirompenti. Un altro potente ostacolo allo sviluppo è l'imponente deficit fiscale del settore pubblico, sia centrale che locale. Secondo il Fondo monetario internazionale questo deficit attorno al 10 % del Prodotto interno lordo, il PIL mette a rischio lo sviluppo economico sia per l'insufficiente raccolta fiscale sia per l'ammontare del debito pubblico, ereditato dia precedenti decenni. Si tratta di un rischio reale perché il sistema finanziario, ed in specifico le banche, in tali condizioni sono naturalmente portate a preferire l'investimento in titoli di debito pubblico, considerato a torto o a ragione "più sicuro", anche se il caso dell'Argentina, nonostante alcune diversità, dovrebbe pur aver insegnato qualcosa. Il risultato è che il risparmio non viene incanalato verso le attività produttive e che il mercato dei capitali manca di liquidità. Di fatto l'andamento delle borse indiane è finora determinato dalle decisioni dei grandi investitori istituzionali esteri, i fondi d'investimento azionari specializzati nei Paesi emergenti. Certo per lo sviluppo industriale è positiva la decisione del 26 ottobre scorso della banca centrale di mantenere il tasso di sconto al 6 %, il più basso dal 1973. Altrettanto positiva è la recente decisione del governo di permettere nel prossimo futuro l'investimento in azioni fino al 5 % del valore del patrimonio dei fondi pensione privati. Si tratta però di fattori di per sé insufficienti a mantenere uno sviluppo sostenuto di lungo periodo. D'altro canto proprio i debiti del sistema pensionistico indiano costituiscono nel lungo termine un fattore di rischio occulto, poiché esso, come in Europa, è a ripartizione, non a capitalizzazione, cioè le generazioni future sono chiamate a saldare i conti di chi oggi lavora. Ma, come in Europa, se la crescita demografica si interrompe, gli impegni, o meglio le bugie, del passato si abbattono sulla società tutta. A fronte di stime che fanno ammontare a circa il 40 % del PIL gli oneri occulti per i futuri impegni pensionistici, le misure che il governo indiano sembra intenzionato ad introdurre potrebbero rivelarsi, dunque, troppo timide.
Un ulteriore fattore di ostacolo allo sviluppo economico indiano è dato dall'endemiche carenze di infrastrutture: strade e autostrade, ponti, aeroporti e porti richiedono investimenti importanti, ma non completamente compatibili con l'attuale stato delle finanze pubbliche. Altri investimenti urgenti e di notevoli dimensioni riguardano gli impianti per la produzione e distribuzione dell'energia elettrica. Per queste infrastrutture, oltre che per gli impianti di raffinazione del petrolio, sarebbe possibile ricorre ad investimenti privati ed esteri, ma il nodo delle tariffe elettriche stabilite per decisione politica non ha però sinora permesso di ricorrere a tale soluzione. Il problema irrisolto è la garanzia di rimunerazione del capitale investito, come ha evidenziato il caso dell'impianto a suo tempo avviato dalla società americana Enron, fallita alcuni anni fa. Tale vicenda ha inoltre messo in evidenza il complesso intreccio di poteri e la diffusa rivalità tra autorità locali e governo centrale, con effetti paralizzanti per la finanza mondiale specializzata in queste transazioni. Non ultimo si pone anche il problema sanitario e dell'istruzione nelle aree rurali. La sanità in India presenta aspetti contraddittori. Da un lato, infatti, offre spunti di eccellenza in alcuni settori privati tali da attrarre nelle cliniche indiane molti pazienti da Paesi di tutta la regione. In tali strutture è infatti possibile ottenere prestazioni paragonabili a quelle occidentali a costi molto inferiori. D'altro lato però la spesa totale per la sanità non supera lo 0,9 % del PIL, molto meno, forse la metà di altri Paesi in una fase di sviluppo simile a quello dell'India. Proprio questo aspetto illustra meglio la contraddizione tra l'ottimismo della crescente economia di mercato ed alcuni importanti indicatori sociali. Insomma nonostante lo sviluppo in India sia decisamente più armonico che in Cina la curva di distribuzione del reddito evolve in maniera molto più uniforme e le classi medie sono aumentate per numero e per reddito pro capite - molto resta da fare perché gli ultimi non siano del tutto esclusi dalla crescita del Paese. In definitiva due fattori possono confermare l'iniziale ottimismo sul futuro dell'India cui inducono le cifre della sua crescita economica. Un primo fattore di ottimismo viene dall'esistenza di mercati finanziari interni validi, più che per le attuali dimensioni, per le loro stesse strutture e regolamentazioni, derivate ancora da quelle britanniche. A giudizio ad esempio di Richard Batty della Standard Life Investments, nei prossimi 50 anni la bilancia del potere economico mondiale cambierà radicalmente ed il mercato azionario potrebbe fornire un rendimento medio annuo del 10 % per i prossimi cinquanta anni.
Il secondo fattore di ottimismo è dato dalle istituzioni politiche indiane, che lungi dall'essere ottimali, sono state comunque in grado di consentire l'alternanza di potere. Ciò offre una preziosa garanzia di stabilità che la Cina, ad esempio, non possiede. Pur con i loro limiti, soprattutto a livello locale, nel confronto con Pechino le istituzioni politiche indiane risaltano perché paiono saper meglio riconciliare i vari segmenti della popolazione.