Giappone, il Pime e le sfide missionarie di oggi
Tokyo (AsiaNews) - A detta di molti, la missione in Giappone – Paese di antiche tradizioni religiose proiettato in una modernità tecnologica quant’altri mai – assume caratteri del tutto peculiari, quasi una “mission impossible”, se valutata col mero parametro dei “risultati”. I cattolici, è noto, sono solo lo 0,4% della popolazione totale e, sebbene le istituzioni educative ed assistenziali promosse dalle Chiese cristiane godano generalmente di grande favore, i numeri dei Battesimi sono stabili da qualche anno. In questo scenario la comunità giapponese del Pime ha recentemente festeggiato i 60 anni di presenza nella terra del Sol Levante.
A questo anniversario e, soprattutto, al senso e alla modalità della missione in Giappone oggi, “Mondo e Missione”, mensile del Pime, dedica il servizio speciale di questo mese. Riproponiamo qui alcuni passaggi dell’intervista del direttore editoriale, Gerolamo Fazzini, a padre Ferruccio Brambillasca, brianzolo, in Giappone da 12 anni, che da tre guida la comunità locale del Pime, composta da 21 membri.
Come vedi, da superiore, la missione del Pime.
Storicamente il Pime ha lavorato in Giappone in due diverse zone molto distanti fra loro. Col tempo lo scenario si è andato modificando. Nella logica post-conciliare della missione che vede come soggetto primo la Chiesa locale, non si concepisce più una missione come «del Pime», ma siamo passati alla collaborazione con le diocesi, secondo il nostro specifico carisma. Un tempo eravamo in due diocesi, oggi in cinque (Fukuoka, Hiroshima, Yokoama, Saitama e Tokyo), seppure concentrati in due poli principali. Non siamo più un istituto che mantiene opere sue, ma si mette a servizio della Chiesa locale.
Ma la Chiesa locale ha ancora bisogno dei missionari stranieri?
A me pare che i missionari stranieri siano ancora oggi ben accettati, anzi richiesti. Quando capita di dover ridurre la presenza del Pime in una diocesi il vescovo si lamenta. Fortunatamente il Pime è compreso come istituto nel suo specifico. Detto ciò, per quanto si cerchi l'inculturazione, rimaniamo preti stranieri. Anche il modo di impostare la parrocchia è talora diverso: non si può negare che ci siano state tensioni, sia nel rapporto con i sacerdoti che con i laici locali. Devo dire che i laici sono una grande risorsa, ma occorre imparare a lavorarci insieme.
Il calo numerico dei membri dell'istituto esige scelte particolari?
Da circa dieci anni si è deciso di privilegiare la zona del Kanto (Tokyo e dintorni) come grande area pastorale per le sfide che porta con sé (è quella più toccata dall'urbanizzazione), oltre che per ragioni interne al Pime: essendo più vicina alla casa regionale, permette ai confratelli di vivere meglio la dimensione comunitaria, essenziale sia in termini di credibilità della testimonianza, sia per garantire un appoggio psicologico e pastorale reciproco.
Ciò significa lasciare il Kyushu, area tradizionalmente legata alla storia dell'istituto?
No, del resto anche lì le sfide non mancano. Il punto è che occorre ripensare complessivamente un modello di missione. Insieme con i giovani, si sta pensando a micro comunità Pime non troppo lontane dalla casa regionale. L'esperienza dice che c'è bisogno di incontrarsi insieme almeno una volta la settimana. Non siamo una comunità religiosa, ma questa esigenza è sentita. La solitudine qui - non nascondiamocelo - si sente molto: perciò mi pare importante scommettere sul lavorare e pensare insieme.
Il cambio di strategia comporta l'abbandono di una «via» missionari tradizionale come gli asili?
Sono due problemi distinti. Oggi nulla impedisce a un padre che se la sente e ne abbia le competenze di reggere un asilo parrocchiale. Guardando al futuro, tuttavia, mi pare di poter dire che non sarà facile continuare nel solco del passato, sia per il calo demografico in atto, sia perché in varie diocesi la tendenza è quella di affidare ai laici la direzione dell'asilo, ritagliando ai padri un ruolo di «formatori di formatori» e padri spirituali. Laddove funzionano, gli asili non vanno abbandonati, perché rappresentano un'occasione pastorale importante.
C'è il tentativo di trovare oggi vie nuove di annuncio?
Il fatto di essere profondamente inseriti nella pastorale non ci impedisce di pensare a vie nuove. Come in passato - vedi l'esperienza di padre Giampiero Bruni nella pastorale operaia - così anche oggi qualcosa si muove. Un esempio: padre Marco Villa, in Giappone da una decina d'anni, sta studiando da tempo, in accordo col vescovo di Saitama, una forma di impegno nel sociale: presto potrebbe inserirsi in un centro di ascolto per anziani e persone in difficoltà, nella logica della testimonianza della carità, che si fa ascolto, prossimità alla solitudine. La costituzione del centro d'ascolto dovrebbe essere il primo segno di una presenza di Chiesa. Credo sia importante non chiudersi in sacrestia. Anche padre Arnaldo Negri, in diocesi di Hiroshima, sta battendo una «via nuova», quella della pastorale degli stranieri: per ora è l'unico del Pime impegnato ufficialmente e a tempo pieno in questo.
Quanto al dialogo interreligioso, come vedi la situazione?
In un ambiente multi religioso come questo, il dialogo è irrinunciabile. Ma non deve essere qualcosa per specialisti, purtroppo si ha la sensazione che vescovi e preti locali, ma anche i semplici cattolici, siano poco attenti su questo fronte. I neo-convertiti alla fede cristiana, in particolare, non vedono la necessità di aprire un confronto con persone di altre tradizioni religiose, le stesse da cui a volte provengono. Così, spesso, sono i missionari stranieri a tenere viva questa tensione. La verità è che siamo ancora agli inizi, uno dei problemi aperti consiste nell'individuare gli interlocutori. Il confronto è aperto col mondo buddhista, meno con quello shintoista, mentre l'islam è una presenza totalmente irrilevante.